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Che cosa cela il caso Giuli-Strega

Il caso Giuli-Strega. Quelle animate e tonitruanti singolar tenzoni sulla cultura non sono tanto culturali. Insomma, la cultura è ormai altrove... Il corsivo di Battista Falconi

Il ministro Alessandro Giuli, dopo avere intrattenuto una lunga e aspra tenzone con il mondo cinematografico, ha cominciato adesso una sfida con quello librario. Nel primo caso le ragioni rivendicate da entrambe le parti componevano un quadro abbastanza chiaro: i cinematografari accusano il governo di censura e disattenzione per l’ipotesi che i fondi pubblici loro erogati vengano ridotti ma, soprattutto, selezionati. La lamentela classica della destra, viceversa, è che si finanzino pellicole che nessuno vede. Nella lite apertasi con il Premio Strega l’oggetto del contendere è più minuto e sfumato, non si capisce se il ministro sia stato davvero estromesso dalla cerimonia di assegnazione del prestigioso riconoscimento letterario, ma la versione della Fondazione che lo gestisce sembra confermarlo: dire che il ministro è sempre gradito ospite non è stato proprio il massimo del rispetto istituzionale…

Colpisce, guardando le due vicende, il protagonismo di un ministro che, nella prima parte del suo mandato, si era distinto per il look molto dandy e per un severo silenzio, intervallato da interventi retoricamente forbitissimi, che talvolta è parso fossero arzigogolati apposta per prendere in giro l’eloquio forbito con cui l’intelighenzia di sinistra amava infiocchettare le proprie presunte idee. Peraltro, Giuli è successore di Gennaro Sangiuliano, l’unico ministro del governo Meloni che si sia dovuto dimettere a seguito di una vicenda nella quale le parole poco controllate, oltre che le azioni, sono state negativamente determinanti.

D’altronde questo dicastero è ed è considerato centrale, poiché per Fratelli d’Italia, e dunque per la destra italiana, rappresenta l’occasione di sovvertire, smantellare o almeno scalfire la cosiddetta “egemonia” che la sinistra vanta tuttora, a dispetto del suo scollamento dalla realtà e dai cittadini, nei turriti territori del cinema, dello spettacolo, dell’arte, della letteratura. Che qualche scaramuccia ogni tanto scoppi è dunque inevitabile, anche se probabilmente non porta acqua a nessuno dei mulini e anzi allontana sempre più le “masse”, i pubblici, dalle produzioni mainstream, ormai ampiamente sostituite dall’autoproduzione social. La “cultura” ormai è altrove, anche se la cosa ci dispiace tanto che preferiamo negarle qualunque dignità.

Premesso che parliamo di patrimoni residuali, ormai in gran parte erosi dalla cattiva gestione, consiglieremmo a tutti gli attori in gioco di ragionare, se ancora ci sia una ragione fondata per la quale chi recita, dipinge, scrive, parla, conciona lo possa fare, come si diceva un tempo, a spese dei contribuenti. Si potrebbe prendere magari come spunto di riflessione l’esempio del presidente statunitense, sempre eccessivo ma paradigmatico (Donald Trump è il sintomo, non il male). Non stiamo certo sostenendo un mercantilismo ipercapitalista nel quale tutto debba essere pagato dal sistema domanda-offerta, ma invitiamo a ragionare sulla progressiva sostituzione dei vecchi canali di formazione culturale – scuole e università incluse, purtroppo – con altri strumenti che la tecnologia fornisce a velocità acceleratissime. Non invochiamo nessuna sforbiciata selvaggia, però l’uso del cesello per rifinire meglio le cose sarebbe opportuno. E avvertiamo che certe le scaramucce su fiere editoriali, premi al miglior tomo, tappeti rossi con relative stelle rischiano di apparire come la sguaiata e ridicola contesa dei predatori che si contendono i resti della bestiola. O, metafora forse più pertinente, come l’insistente tentativo dei tombaroli di accaparrarsi gli ultimi reperti in un monumento ormai quasi spoglio.

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