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Vi racconto l’ultimo balletto sulle province

La vicenda delle province sta per concludersi o stiamo per assistere ad una ulteriore puntata di una indecorosa telenovela? L'intervento di Massimo Balducci

Ad una recentissima riunione della sezione toscana dell’Unione Province Italiane (UPI), il Ministro Piantedosi (in videoconferenza) ha annunciato a breve un disegno di legge per porre termine alla vicenda della così detta abolizione delle province. Vale la pena ricostruire la vicenda per capire quali sono i problemi in gioco.  Dubito che questi problemi siano stati compresi da chi gioca a fare il legislatore nel nostro Paese.

La vicende prende le mosse nell’agosto del 2011 quando Trichet e Draghi (governatore in carica a fine mandato e governatore appena eletto a capo della BCE in procinto di entrare in carica) scrissero una lettera al governo Italiano contenente una serie di diktat, tra i quali spiccava quello di abolire le Province. Nel 2014 veniva approvata dal nostro Parlamento la legge 56 (la così detta legge del Rio) che, in attesa dell’abolizione delle Province da realizzarsi con modifica della Costituzione, svuotava le Province dei loro compiti privandole delle loro risorse, senza preoccuparsi di stabilire meccanismi di trasferimento delle funzioni esercitate dalle province ad altri enti. La legge 56/2014 è stata smantellata progressivamente dalla Corte Costituzionale (sentenza 50/15 , sentenza 159/16,  sentenza 240 del 2021). Di fatto è dal 2021 che le nostre Province operano in un regime di extralegalità totale.

Il problema, del resto, non è di natura giuridico formale: realizzare una riforma legislativa in previsione di una riforma costituzionale che si sarebbe dovuta realizzare e poi non si è materializzata. Il problema è di natura sostanziale. Il diktat dell’estate del 2011 (firmato da Trichet e da Draghi, comunque riconducibile esclusivamente a Draghi) è stato un errore marchiano. Il problema non è quello di “abolire” le province: si tratta di ridisegnare un nuovo assetto del governo locale in considerazione dell’evoluzione dei compiti degli enti locali. Enti locali che, a partire dal secondo dopoguerra, hanno visto estendersi i propri compiti, aggiungendo a quelli tradizionali di garanzia della legalità e livello locale tutti quelli relativi alla fornitura di servizi (abitazione, scolastici, sociali, infrastrutture etc.).  Il ruolo delle Province va riconsiderato insieme ai nuovi compiti che i comuni sono chiamati a svolgere. Questo aspetto aveva, al contrario,  dato vita ad una serie di interventi legislativi miranti a forzare i comuni ad associarsi ed eventualmente a fondersi e a ridurre la autonomia dei comuni.

Le varie iniziative legislative miranti ad eliminare i piccoli comuni  risalgono alla legge 30 luglio 2010, n. 122 («Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», in particolare con il comma 28 dell’art. 14 si impone l’obbligo ai comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti di gestire in forma associata le cosiddette funzioni fondamentali stabilite dalla legge 42 del 2009). Anche questo sforzo legislativo è stato tamponato dalla Giustizia Costituzionale (sentenza 33 del 2019). Quali vantaggi operativi potrebbe portare l’abolizione di  un comune di 1.550 abitanti per fonderlo con altri 3 comuni e arrivare ad avere un ente di 5.500 abitanti? Ovviamente nessuno salvo il costo di alienare i cittadini dall’unico rapporto che hanno con l’istituzione repubblicana: appunto attraverso la propria comunità locale.

Il fatto è che il problema della “dimensione” dei piccoli comuni e del ruolo delle province va affrontato e regolamentato in maniera integrata. Le esperienze di Francia e Germania possono ispirarci delle soluzioni. In buona sostanza in Germania e in Francia, attraverso percorsi istituzionali diversi, si è di fatto reso obbligatoria la concentrazione dei servizi “industriali” in realtà istituzionali che stanno al di sopra dei comuni e che stanno al di sotto delle Prefetture. I Kreise in Germania e le Comunità Urbane in Francia rappresentano il perno del nuovo assetto del governo locale. A livello di Prefetture restano i compiti relativi al controllo, mentre  le funzioni relative alla fornitura dei servizi vanno spostato a questo ente intermedio. All’ingrosso per ogni prefettura si attivano all’incirca due Kreise o Comunità Urbane. Per chi fosse interessato a conoscere il meccanismo mi permetto  rinviare al mio libro, Un serpente che si morde la coda, ovvero le riforme della nostra amministrazione, Milano, Guerini e Associati, par. 2.6.1.1.

Una ultima considerazione. La legge 56/2014 ha introdotto un fumoso istituto: quello della città metropolitana. Che cosa si volesse intendere non è chiaro. Il problema che avrebbe richiesto una soluzione, al contrario, lo è. Si tratta del governo delle così dette conurbazioni, cioè di quegli agglomerati urbani caratterizzati dal fatto che diverse realtà urbane confluiscono in una unica rete urbana, definita dagli urbanisti “conurbazione”. La legge 56 del 2014 dà una definizione vaga di città metropolitana e non affronta il problema delle conurbazioni. Così Livorno e Pisa (che formano una conurbazione) fanno capo a due realtà amministrative diverse. Al contrario Empoli e Borgo San Lorenzo, separati da più di 70 chilometri di spazio inabitato, fanno parte della stessa città metropolitana che, allo stato attuale è un prodotto di fantasia. L’esempio dell’Olanda, del Belgio, della Germania e dei Paesi Scandinavi mostra che il modo migliore di governare le conurbazioni non è quello di creare un ulteriore ente, ma quello di sviluppare protocolli di collaborazione caso per caso. C’è da augurarsi che la dizione “città metropolitana” scompaia dalla legislazione in via di preparazione. Che Dio ce la mandi buona.

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