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Tutti i timori economici della Germania con la guerra Israele-Iran

Dibattito degli analisti economici in Germania sulle conseguenze possibili della guerra Israele-Iran. Berlino osserva con allarme. L'articolo di Pierluigi Mennitti

Anche in Germania cresce tra gli analisti la preoccupazione per le ricadute economiche ed energetiche del conflitto tra Israele e Iran. L’escalation in corso, oltre ad acuire le tensioni geopolitiche, sta già producendo effetti concreti su mercati e consumi. Mentre il governo federale monitora da vicino la situazione, i prezzi del greggio sono aumentati sensibilmente, le borse hanno registrato fasi di volatilità e le prospettive economiche internazionali si fanno più incerte. L’attacco israeliano – come confermato da fonti iraniane – ha colpito anche giacimenti di petrolio e gas, aprendo lo scenario di una possibile, temuta rappresaglia di Teheran: il blocco dello Stretto di Hormuz, una delle vie marittime più strategiche al mondo per l’approvvigionamento energetico.

LO STRETTO DI HORMUZ NODO CRITICO DELL’ECONOMIA GLOBALE

L’ipotesi che l’Iran possa chiudere lo Stretto di Hormuz, già minacciata in passato, torna al centro delle analisi strategiche. Attraverso questa rotta transita circa un quarto della produzione mondiale di petrolio e una quota consistente delle esportazioni di gas naturale liquefatto. “Un’interruzione dei traffici avrebbe conseguenze dirette su tutti i principali esportatori e importatori di energia, dall’Arabia Saudita alla Cina”, avverte Stephen Dover, economista del Franklin Templeton Institute. Anche Ricardo Evangelista, capo analista del broker ActivTrades, conferma che l’interruzione delle forniture potrebbe avere un impatto significativo sul mercato energetico mondiale, innescando una reazione a catena che coinvolgerebbe anche l’economia tedesca, fortemente dipendente dalle importazioni.

LA PORTATA LIMITATA DELLA PRODUZIONE IRANIANA NON BASTA A RASSICURARE

Secondo gli analisti, la produzione petrolifera iraniana – pari a circa 3,8 milioni di barili al giorno, ovvero il 4% del totale mondiale – non è di per sé determinante per l’equilibrio globale. Tuttavia, quasi la metà di questi volumi viene esportata, principalmente verso la Cina e altri paesi asiatici. “Un calo improvviso delle esportazioni iraniane potrebbe essere inizialmente assorbito dal mercato”, spiegano gli esperti della banca Metzler. Più preoccupante sarebbe invece un’eventuale interruzione del flusso energetico complessivo dai paesi del Golfo Persico. Secondo Helaba, circa il 23% del petrolio mondiale proviene da quest’area e un quarto del GNL globale transita dallo stretto. La combinazione tra offerta incerta e domanda stabile rischia di innescare una nuova corsa ai prezzi.

PREZZI IN SALITA: TIMORI INFLAZIONISTICI

I segnali di allarme sono già visibili nei mercati. Sebbene le quotazioni abbiano conosciuto una lieve flessione dopo i picchi iniziali, gli operatori restano in allerta. “L’attuale stabilità è fragile e potrebbe essere spezzata da un ulteriore aggravarsi del conflitto”, spiega Robert Halver della Baader Bank. Il buffer produttivo dei paesi OPEC, come l’Arabia Saudita, può offrire una parziale compensazione, ma questi stessi attori dipendono a loro volta dalla rotta marittima sotto minaccia. L’eventualità di un blocco effettivo farebbe schizzare i prezzi del greggio ben oltre la soglia psicologica dei 100 dollari a barile. Secondo George Saravelos, analista della Deutsche Bank, le quotazioni potrebbero persino superare i 120 dollari.

L’effetto sui consumatori è già tangibile. In Germania, secondo l’ADAC, l’automobilclub tedesca, i prezzi dei carburanti sono aumentati sensibilmente: la benzina Super E10 ha raggiunto 1,749 euro al litro, mentre il diesel è salito a 1,639 euro. Prima dell’attacco israeliano, i prezzi erano inferiori rispettivamente di circa 8 e 9 centesimi. Anche il mercato del gasolio da riscaldamento ha reagito rapidamente: dai circa 87 euro per 100 litri registrati a maggio, si è passati a 94 euro a metà giugno. “Se la crisi si aggrava, i rincari potrebbero continuare”, avverte Thorsten Storck, esperto del portale Verivox.

RISCHIO STAGFLAZIONE E SCENARI PER LA POLITICA MONETARIA

Le implicazioni non si fermano ai costi dell’energia. Un nuovo aumento sostenuto dei prezzi potrebbe compromettere il delicato equilibrio tra crescita economica e controllo dell’inflazione. Neil Wilson, stratega di Saxo Markets, sottolinea che la chiusura dello Stretto di Hormuz comporterebbe un brusco ritorno dell’inflazione. In Germania, il tasso inflattivo era sceso al 2,1% lo scorso maggio, dopo il 6,1% dell’anno precedente, grazie proprio alla discesa dei prezzi energetici. Un’inversione di tendenza metterebbe in difficoltà non solo le famiglie, ma anche le strategie delle banche centrali.

Le ripercussioni potrebbero riguardare direttamente la politica monetaria. Secondo Jochen Stanzl, analista di CMC Markets, un ritorno del petrolio sopra i 100 dollari rischierebbe di spingere nuovamente la Germania verso la recessione, vanificando le recenti previsioni più ottimistiche degli istituti economici. La prospettiva di una stagflazione globale – aumento dei prezzi senza crescita – preoccupa anche Cyrus de la Rubia, capo economista della Hamburg Commercial Bank. In tale contesto, le banche centrali sarebbero costrette a scegliere tra la lotta all’inflazione e il sostegno alla crescita, in un quadro che si complica ulteriormente con l’inasprimento delle tensioni geopolitiche.

GLI ESPERTI DISCUTONO LA STRATEGIA ISRAELIANA

Infine la discussione apertasi fra gli esperti sulla strategia israeliana per bloccare il nucleare iraniano. In un’intervista alla tv pubblica ARD, Georg Steinhauser, professore di radiochimica applicata all’Università Tecnica di Vienna e membro del Comitato consultivo per la radioprotezione del ministero federale austriaco della Salute, discute l’efficacia degli attacchi israeliani contro l’Iran come deterrente nucleare. Il professore si dilunga in una descrizione tecnica. L’uranio naturale contiene meno dell’1% dell’isotopo fissile U-235 e per usi civili viene arricchito fino al 5%, mentre oltre il 20% è già considerato “altamente arricchito”.

L’Iran, secondo l’AIEA, ha raggiunto il 60%: un livello che, spiega Steinhauser, rende il passaggio al 90% (soglia militare) tecnicamente rapido, perché l’arricchimento non è un processo lineare. Procurarsi uranio non è difficile: non è un elemento raro, e piccoli giacimenti bastano per sostenere un programma nazionale.

Tuttavia, anche con materiale fissile pronto, l’arma nucleare resta un obiettivo complesso: servono competenze avanzate, tecnologie sofisticate e test. È in questo contesto che Israele, sostiene Steinhauser, colpisce ricercatori e infrastrutture per rallentare il programma iraniano, più che per fermarlo. La vera posta in gioco, secondo lo scienziato, è il tempo: guadagnarlo nella speranza di innescare nella Repubblica islamica un cambiamento politico.

 

 

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