Mercoledì a Parigi sono tornati a parlarsi il Commissario europeo per il Commercio, Maroš Šefčovič, e il Rappresentante statunitense Jamieson Greer
Un negoziato in cui siamo drammaticamente in coda, rispetto a tutte le altre maggiori economie del pianeta e che comincia a mostrare i propri risultati, in termini di riequilibrio degli scambi tra le due sponde dell’oceano. Infatti proprio venerdì abbiamo appreso che il deficit commerciale Usa si è ridotto ad aprile ad oltre la metà rispetto a marzo, con un crollo delle importazioni. È pur vero che questo dato segue quanto accaduto nel primo trimestre, con le importazioni in verticale ascesa nell’intento di anticipare l’entrata in vigore dei dazi, ma il segnale in controtendenza rispetto al passato appare netto.
Dal lato Ue è impressionante il calo ad aprile del surplus commerciale della Germania (da 21,3 a 14,6 miliardi).
Insomma, la strada è ancora lunga e accidentata per il pieno conseguimento degli obiettivi di politica economica di Donald Trump, però qualcosa si muove e la crescita del PIL Usa nel secondo trimestre, attesa tra qualche settimana, potrebbe offrire qualche indicazione in più.
Il ritardo della Ue nel trovare un punto d’incontro con l’amministrazione Trump è in stridente e imbarazzante contrasto con la rapidità con cui invece a Londra sono stati i primi a chiudere l’accordo.
E la memoria allora non può non andare al 22 aprile 2016, quando a poche settimane al referendum sulla Brexit, Barack Obama in visita nel Regno Unito avvertì minacciosamente i britannici che con la Brexit “sarebbero finiti in fondo alla fila per negoziare un accordo commerciale con gli Usa”. Sono passati circa 9 anni e i cittadini britannici hanno clamorosamente saltato tutta la coda e dalla sera dell’8 maggio hanno pure terminato l’attesa.
Ora alla fine della coda c’è la Ue e Donald Trump due settimane fa, proprio poche ore prima di una chiamata chiave tra il rappresentante commerciale statunitense Jamieson Greer e il massimo funzionario commerciale dell’UE, Maros Sefcovic, ha suonato la fine della ricreazione. L’annuncio dei dazi del 50% a partire dal primo giugno – poi rinviata al 9 luglio come per tutti gli altri Paesi – ha raggiunto perfettamente il proprio obiettivo di scuotere dal torpore i negoziatori di Bruxelles e suona come inattesa solo a chi non ha seguito lo sterile confronto in atto da alcune settimane tra Washington e Bruxelles.
Perché gli avvertimenti non erano mancati. Il 13 maggio, parlando da Ryhad, il segretario del Tesoro Scott Bessent aveva messo il dito nella piaga, affermando che “Gli europei hanno un problema di azione collettiva. È proprio il loro punto debole…Non operano sempre in modo coeso come gli Stati Uniti d’America. È un consorzio di 27 nazioni sovrane… gli italiani e i francesi vogliono cose diverse”.
Il problema è esattamente questo. Aldilà del merito specifico della posizione negoziale della Ue, esiste una oggettiva difficoltà arispondere in modo rapido ed efficace a causa della necessità di coordinare le posizioni tra i suoi membri, ognuno con priorità economiche e politiche distinte. È proprio la struttura istituzionale della Ue oggi il più grande ostacolo a un efficace e rapido negoziato con gli Usa. Parlando a Fox News, Bessent ha pure rincarato la dose, aggiungendo che “le proposte presentate finora dai funzionari europei sono state insufficienti rispetto a quelle presentate dagli altri partner commerciali statunitensi. Sono 27 paesi, ma sono rappresentati da questo unico gruppo a Bruxelles. Quindi, alcuni dei feedback che ho ricevuto indicano che i paesi interessati non sanno nemmeno cosa l’UE stia negoziando per loro conto”.
Il confronto con il Regno Unito ma anche con la Svizzera – fuori dalla Ue e grande esportatore netto verso gli Usa, con un export superiore a quello italiano già nel 2024 e cresciuto a dismisura nel primo trimestre 2025 fino a triplicare quello italiano – è impietoso. Da Berna, dopo una recente visita di Bessent, hanno già annunciato che sono vicini alla firma di una lettera di intenti per ridurre sensibilmente quel 31% che minaccia di colpire le loro esportazioni dal 9 luglio.
Da Londra, emergono i primi dettagli da cui risulta che l’accordo Usa-Uk è stato il risultato di un’intensa offensiva diplomatica da parte di Keith Starmer che ha lavorato instancabilmente per costruire un rapporto con Trump, nonostante le profonde differenze politiche.
Il Dipartimento per il Commercio e l’Industria britannico ha modellato oltre 100 scenari economici per prepararsi a diverse eventualità, mentre i diplomatici britannici a Washington fornivano rapporti regolari.
Se non si vuole credere alle parole di Bessent – nonostante le sue affermazioni siano state rilanciate dal non certamente amico Washington Post – sono i numeri che parlano da soli e restituiscono un quadro così eterogeneo che c’è davvero da credere che il povero Sefcovic non sappia cosa chiedere, tali e tante sono le diverse esigenze degli Stati membri e sia costretto a muoversi come un pachiderma. Tra i primi 8 Paesi esportatori verso gli Usa, ce ne sono alcuni come Francia, Spagna e Paesi Bassi con saldo della bilancia commerciale delle merci in pareggio o in lieve deficit. Sul versante opposto ci sono Germania, Irlanda e Italia con un avanzo consistente. È evidente il diverso impatto dei dazi su ciascun Paese e quindi gli interessi giocoforza divergenti e impressiona la corsa ad esportare del primo trimestre di quest’anno, con Irlanda e Svizzera su livelli record. L’industria farmaceutica sapeva tutto, probabilmente.
Ma ciò non basta. Quei saldi nascondono una composizione nettamente diversa per categoria merceologica.
Come dettagliatamente illustrato il 20 maggio sul quotidiano francese Le Figaro (anche in questo caso non proprio un foglio anti Ue), citando uno studio dell’ufficio statistico delle dogane, la Francia non esporta affatto gli stessi prodotti degli altri “campioni” dell’export UE. Anziché prodotti farmaceutici, automobili e macchinari, l’export francese verso gli Usa si concentra su altri settori: aereonautico e spaziale, bevande, profumi e cosmetici. Nessuno dei quali è stato colpito dai maxi dazi al 25% che hanno colpito acciaio, alluminio, automobili, ricambi auto. La gran parte dei beni esportati dai francesi ricadono sotto l’aliquota base del 10%. In ogni caso, hanno aumentato da tempo l’acquisto di idrocarburi Usa e la bilancia commerciale è in sostanziale pareggio. L’irritazione dei francesi traspare dalle parole di Thomas Grjebine, economista del CEPII: “Se la Germania non avesse consumato in modo insufficiente per tutti questi anni, l’UE non avrebbe questo surplus monumentale con gli Stati Uniti”, ha aggiunto concordando anche Anthony Morlet-Lavidalie, economista di Rexecode. E forse non saremmo incorsi nell’ira di Donald Trump, conclude.
I francesi temono che l’esigua esposizione dei prodotti francesi all’aliquota del 25% non rappresenti necessariamente un’opportunità. “Il fatto che all’interno dell’UE abbiamo una diversa composizione delle esportazioni potrebbe rappresentare per noi uno svantaggio nei negoziati”, afferma ancora Grjebine. Era questo uno dei timori di Bernard Arnault, CEO di LVMH: che la Commissione Europea si dimostrasse particolarmente sensibile alla sorte del settore automobilistico.
Per sbloccare questo stallo, di fronte ad un intreccio oggettivamente inestricabile di interessi commerciali contrastanti, sembra che la minaccia di Trump abbia sortito qualche effetto. Ma il 9 luglio si avvicina e 27 Paesi sono troppi per stare tutti insieme nella testa del pur volenteroso Commissario Sefcovic.