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Perché non c’è da stupirsi della sconfitta della Nazionale

Considerazioni manageriali ed economiche a margine della sconfitta della Nazionale di calcio contro la Norvegia. L'intervento di Massimo Balducci

La sconfitta di venerdì sera della nazionale di calcio contro la Norvegia non dovrebbe stupirci più di tanto. L’allenatore non può far miracoli con il parco giocatori a disposizione tra cui fare le sue scelte. Il declino del nostro calcio nazionale (non quello dei club dove ce la caviamo, grazie in buona parte a giocatori di nazionalità non italiana) andrebbe ricondotto alle sue origini profonde: il fatto che i nostri club preferiscono investire nell’acquisto di giocatori già affermati piuttosto che investire nella formazione di giovani talenti. Probabilmente l’Atalanta è una conferma di questa ipotesi. Anche se si tratta di un club non particolarmente ricco. l’Atalanta, infatti, è arrivata ai vertici dell’Europa. C’è da chiedersi quanto sia importante nei successi dell’Atalanta l’attenzione che dedica al settore giovanile con centri di formazione veramente eccellenti.

​Anni fa ho avuto la ventura di lavorare per la sezione del lavoro dell’Amministrazione Cantonale del Ticino. Di questa esperienza mi è rimasto un ricordo, se si vuole collaterale al mio impegno professionale. Si tratta del fatto che mi resi conto che le autorità cantonali non vedevano di buon occhio le imprese italiane che tentavano di istallarsi in Ticino, anche se avrebbero potuto rappresentare una interessante fonte fiscale. Cercai di capire il perché di questo atteggiamento ostracista. Il mio dubbio era che si trattasse di una sorta di “preclusione aprioristica” di tipo anti-italiano in maniera preconcetta. Il fatto è che non solo le autorità cantonali ma anche le associazioni imprenditoriali mi hanno spiegato bene il motivo del loro ostracismo: le imprese italiane si erano acquistate la fama di non investire (in tempo/uomo non in risorse finanziarie) nella formazione dei giovani. Il sistema svizzero basa la sua forza sulla altissima competenza delle sue maestranze, competenza ottenuta con un sistema di formazione in cui la componente teorica è altamente integrata con quella pratica. Questa integrazione richiede alle imprese un impegno significativo nel coordinarsi con i centri di formazione, a tutti i livelli, dalle scuole medie al livello universitario che in Ticino si concretizza nella SUPSI (Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana). Si tratta di far sì che quanto viene appreso in aula trovi riscontro diretto in quello che si viene chiamati a fare durante il tirocinio. Per chi fosse curioso di approfondire l’argomento invito a consultare il sito www.orientamento.ch. Questo coordinamento richiede impegno e tempo ma è una condizione irrinunciabile per garantire l’efficacia del sistema economico svizzero. Orbene le autorità cantonali erano state obbligate a riconoscere che nell’impresa italiana manca questa consapevolezza.

​L’assenza di questa cultura è da far risalire, in Italia, agli anni ‘70 dello scorso secolo quando l’istituto dell’apprendistato, anziché essere modernizzato liberandolo dei residui di una cultura medioevale finalizzandolo meglio all’introduzione al “saper fare”, è stato completamente abolito. I recenti tentativi di reintrodurre dei meccanismi di onboarding, di introduzione al lavoro, di passerella tra la scuola e la produzione sono in buona parte falliti. Gli stages scolastici non sono il risultato di una programmazione del coordinamento tra quanto si apprende sui banchi e quanto si fa in azienda: gli studenti vengono fatti vagare da una stanza all’altra, magari facendo fotocopie. Molte imprese realizzano contratti di tirocinio a catena, uno dopo l’altro, sostanzialmente per poter avere delle risorse umane a costo ridotto e non per potersi formare dei futuri collaboratori validi.

​Dovremmo chiederci se l’assenza di consapevolezza dell’importanza di investire risorse psicologiche e in termini di tempo nella formazione dei giovani non sia la causa principale della fuga dei nostri giovani all’estero. Non tanto il basso salario (che è basso perché bassa è la produttività) ma il fatto di sentirsi estranei ai processi lavorativi cui si dovrebbe contribuire che spinge i nostri migliori giovani ad espatriare.

​Se non prendiamo di petto questo problema il nostro sistema produttivo corre il rischio di fare la fine della nostra nazionale di calcio: dopo i fasti del mondiale del 2006 si cadrà rapidamente in recessione. Il problema non va affrontato a livello di leggi ma a livello di operatori, organizzazioni datoriali, sindacati e organizzazioni professionali. Il tempo stringe.

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