È sempre più evidente che il referendum dell’8-9 giugno ha assunto una rilevanza politica molto superiore all’impatto concreto e, quel che è più interessante, a prescindere dal raggiungimento del quorum.
La rilevanza maggiore è all’interno dell’opposizione, per definire i rapporti di forza attuali, ma forse addirittura per stabilire chi governerà l’Italia in caso di sconfitta del centrodestra nel 2027.
Il referendum, insomma, è una specie di primaria aperta a tutti, con alcuni vantaggi: nelle primarie tradizionali è difficile portare gli elettori a votare, il bacino di riferimento è relativamente piccolo, iscritti e simpatizzanti molto motivati.
Una primaria per via referendaria può contare su un’organizzazione capillare, fatta direttamente dal ministero dell’Interno, e su un’affluenza sicuramente maggiore, anche nel caso non si raggiungesse il quorum del 50 per cento degli aventi diritto più uno. Ma primaria per cosa?
Il referendum lo possiamo considerare forse addirittura una elezione primaria per scegliere il candidato – ufficiale o ufficioso – alla presidenza del Consiglio del centrosinistra.
In caso di successo – e vediamo dopo come si può definire il successo – potrebbe essere il segretario della Cgil Maurizio Landini, punto di compromesso tra i due principali leader di partito della coalizione, cioè Elly Schlein del Pd e Giuseppe Conte dei Cinque stelle.
Perché Landini?
Perché Elly Schlein ha caratterizzato l’intera sua segreteria con proposte che sono prese dalla lista delle battaglie della Cgil e che rispecchiano quella idea di mercato del lavoro, limitata ai lavoratori dipendenti, mentre gli autonomi, le partite Iva, gli artigiani sono abbandonati alla destra e trattati anzi come potenziali evasori o sfruttatori.
Lo spiega Elly Schlein in una intervista a Domani, la sua missione è stata “ricucire gli strappi con il mondo del lavoro”, o almeno con il mondo del lavoro rappresentato dalla Cgil, visto che la Cisl è ormai in orbita di governo, la Uil conta un po’ meno, ha una grande sensibilità sui temi della transizione ecologica che però sono diventati periferici nel messaggio del Pd.
Conte è andato alla rottura definitiva con Beppe Grillo anche e soprattutto sulla scelta di dare ai Cinque stelle una collocazione stabile, per quanto mai sottomessa, nel centrosinistra guidato dal Partito democratico.
L’ex premier ha trasformato un movimento popoulista in un partito più laburista, che – se proprio si vuole fare una distinzione con il Pd – si preoccupa anche di quella parte di elettorato che ha bisogno di assistenza, prima che di contratti a tempo indeterminato.
Salario minimo, riduzione dell’orario di lavoro, aumento dei congedi per i genitori, aumento del finanziamento per la sanità: le parole d’ordine dei due partiti principali del centrosinistra sono ormai indistinguibili, dal lavoro alla politica estera, questione di sfumature, anche rispetto all’Alleanza Verdi sinistra che condivide gli stessi approcci, anche se usa toni più netti.
Le ambizioni di Elly Schlein e Giuseppe Conte per palazzo Chigi, anche in caso di vittoria, sono destinate a elidersi per due ragioni: Conte faticherebbe troppo, da ex premier, ad appoggiare un governo Schlein. E la segretaria del Pd sa che guidare insieme partito e governo è la garanzia di un rapido logoramento: neppure Matteo Renzi, forte di consensi molto superiori a quelli di Elly Schlein oggi, è riuscito a tenere a lungo il doppio ruolo.
Dunque serve un nome terzo, e per la configurazione che Schlein e Conte stanno dando al centrosinistra è chiaro che – a differenza che in stagioni passate di governo – difficilmente potrà essere una figura più centrista, come per esempio Paolo Gentiloni.
L’unica opzione è di fatto Maurizio Landini, il cui nome circola da mesi nei corridoi del potere romano. Lui smentisce, o precisa, in un’intervista al Messaggero Veneto, per esempio, nega che la Cgil svolga un ruolo di supplenza rispetto ai partiti.
Ma in realtà proprio quel ruolo di supplenza, o forse superamento, dei partiti è una vecchia idea del sindacalista di Reggio Emilia, che giusto un decennio fa – da leader dei metalmeccanici della FIOM – aveva tentato l’esperimento di costruire una “coalizione sociale” che fosse l’embrione di un esperimento politico.
Poi si è aperta la possibilità di prendere il posto della sua antica rivale interna Susanna Camusso alla guida della Cgil e il progetto è tramontato, perché la scalata di Landini richiedeva un’evoluzione moderata e unitaria nel suo sindacato.
Camusso è diventata senatrice del Pd e Landini ora è pronto a una nuova scalata. Questo referendum è la sua battaglia, lui l’ha iniziata e lui ha aggregato uno dopo l’altro i partiti del centrosinistra e lui sfida in televisione il vero capo del fronte avverso, che non è Giorgia Meloni ma Matteo Renzi.
I quattro quesiti del lavoro sono presentati, con una certa forzatura, come la cancellazione del Jobs Act, la legge del governo Renzi del 2015 che ha riformato il mercato del lavoro e creato la frattura tra il Pd di allora e il mondo della Cgil.
Questo riferimento esplicito al Jobs Act e alla chiusura di quella stagione sottolinea la rilevanza identitaria per il centrosinistra e il Pd in particolare del referendum.
Il quinto quesito, quello promosso da +Europa, riguarda il dimezzamento dei tempi di cittadinanza per gli extracomunitari, da 10 a 5 anni: è quello che potrebbe avere l’impatto più dirompente sulla competizione politica, accelerando l’ingresso di nuovi elettori nell’arena democratica, ma è marginale nelle dinamiche interne al centrosinistra.
Fatte tutte queste premesse, vediamo allora gli scenari possibili e le implicazioni. Il centrodestra di governo si è schierato per l’astensione, anche la premier Giorgia Meloni che ha detto di voler andare al seggio senza ritirare la scheda, una scelta che equivale a rimanere a casa.
Il referendum del 2022 sulla giustizia, promosso dal centrodestra, che era per il voto mentre il Pd e il centrosinistra hanno scelto l’astensione senza dichiararlo in modo esplicito, ha portato alle urne 10,4 milioni di elettori. Una delle partecipazioni più basse della storia referendaria, e c’erano alcune elezioni locali in contemporanea che agevolavano la partecipazione.
Un’affluenza sotto soglia 10,4 milioni, dunque, segnerebbe il fallimento completo dell’operazione Cgil-centrosinistra, la fine dell’ipotesi Landini come nome di sintesi e un serio problema interno per Elly Schlein, che dovrebbe affrontare nuovi attacchi interni di quella parte di partito che vorrebbe cambiare segretario in vista del 2027.
Un’affluenza intorno agli 11 milioni sarebbe in linea con i voti raccolti dai vari partiti del centrosinistra alle elezioni europee del 2024 dove, va ricordato, correvano separati e non in coalizione.
In questo scenario non ci sarebbe il quorum, visto che gli aventi diritto al voto sono oltre 51 milioni, ma si potrebbero cominciare a pesare le varie fazioni: i renziani, o comunque i più riformisti del Pd, potrebbero intestarsi sia i “no” ai quesiti sul lavoro, sia le preferenze espresse con il voto disgiunto di chi ritira la scheda per il quesito sulla cittadinanza (per votare sì, è lecito supporre) ma non quelle per i quattro quesiti sul lavoro, contribuendo così al quorum soltanto per il quesito numero 5.
In questo schema, Renzi e i suoi finirebbero inevitabilmente per essere sovra-rappresentati, perché potrebbero intestarsi una parte degli 11 milioni di votanti e vantare anche una sintonia con la maggioranza degli astenuti, e quindi – quando ci saranno da decidere le liste per le europee o per le elezioni locali – pesare molto più di quel milione e mezzo di voti che valevano Italia Viva e Azione alle europee 2024.
Lo scenario della vittoria, per Elly Schlein, Landini, ma anche un po’ per Conte, comincia sopra quota 12,3 milioni di voti, meglio ancora se quei 12 milioni sono i voti per il sì ai quesiti sul lavoro e i votanti sono un po’ superiori.
Con un ragionamento un po’ spericolato ma efficace, i leader del centrosinistra potrebbero sostenere di avere più consenso nel Paese di quello che aveva il centrodestra nel 2022, quando ha appunto vinto le elezioni con 12,3 milioni di voti (se guardiamo a quelli espressi per la coalizione nella parte uninominale della competizione).
Una delle conseguenze della astensione, quella spontanea e quella suggerita e ispirata dai partiti ostili al referendum e dalla stessa Meloni, è di dare molto più peso ai voti espressi: in questo caso specifico, i valori assoluti contano più delle percentuali.
Se poi ci fosse il quorum e una maggioranza di sì, sarebbe il trionfo per Schlein, Conte e Landini: la parte sul lavoro non metterebbe davvero in difficoltà il governo, il quesito sulla cittadinanza invece sì.
Nell’ipotesi che una maggioranza assoluta di elettori volesse davvero accelerare i tempi per la cittadinanza degli extracomunitari, verrebbe meno uno dei pilastri della narrazione della destra di governo, cioè la richiesta dal basso di ridurre il numero di immigrati e limitarne l’integrazione al minimo.
(Estratto da Appunti)