Ho sempre odiato Dagospia, e l’ho sempre letto. E adesso che celebra i suoi 25 anni di esistenza è ora di farne un bilancio onesto: ha vinto lui, Roberto D’Agostino, ha imposto la sua egemonia culturale e giornalistica in Italia, e persino oltre.
CHE COSA E’ VERAMENTE DAGOSPIA
Dagospia ha contribuito a distruggere il modello di business dei grandi giornali sedicenti autorevoli, ma ha anche rivelato i loro limiti più profondi, strutturali, e alla fine ha sottratto loro anche l’autorevolezza. E se lo meritano, nel senso che D’Agostino si merita di aver conquistato quella forse inattesa autorevolezza che ha ora e i giornali si meritano di averla persa.
Può sembrare una discussione di nicchia, di categoria, ma l’impatto di Dagospia va ben oltre il ristretto e decadente mondo dei giornalisti, dunque credo abbia un qualche interesse per tutti.CHE COSA
Per chi non lo legge – pochi – bisogna prima spiegare cosa fa Dagospia: saccheggia il meglio dei giornali tradizionali, in prevalenza italiani, copia, condensa, traduce.
COSA FA E COSA NON FA DAGOSPIA
Usa il lavoro di altri per dare “copertura” ai fatti del giorno – l’articolo viene dall’Ansa, dal Corriere, da Repubblica, dal trash del Daily Mail – riprende (cioè: copia citando) gli scoop, almeno quelli che ritiene degni di visibilità, e poi a tutto questo aggiunge tre cose.
Articoli di firme, editorialisti, diciamo, come Marco Giusti o Giampiero Mughini, e pezzi originali – i Dagoreport – che grazie anche all’anonimato dell’autore garantiscono quasi sempre analisi originali ed esplicite che nessun giornale pubblicherebbe così.
Poi ci sono gli scoop, grandi e piccolissimi. Dalla rottura tra Francesco Totti e Ilary Blasi alla “frociaggine” denunciata da Papa Francesco.
Per due volte Dagospia ha dato notizia di miei cambi di lavoro prima che potessi informare i colleghi (questo dice molto sull’efficacia del sito, ma anche sulla riservatezza dei giornalisti italiani e delle aziende editoriali).
PERCHE’ ODIO DAGOSPIA
Ho sempre odiato Dagospia, dicevo, per una questione molto concreta: ho lavorato per quasi quindici anni nei giornali che Dagospia saccheggia. Sapevo quanto costavano quegli scoop che, pochi minuti dopo la pubblicazione, erano sulla home page del sito di D’Agostino.
A Domani avevo ingaggiato Selvaggia Lucarelli per avere un impatto digitale maggiore, e ogni cosa interessante che Selvaggia scriveva dietro paywall per Domani finiva su Dagospia accessibile a tutti, magari con qualche minimo taglio che giustificava la dicitura “estratto” e che faceva da argine alla mia incazzatura.
Per qualche anno ho pensato che si potesse agire per vie legali, fermare questo saccheggio, poi ho capito che D’Agostino conosceva i giornalisti e gli editori italiani, mentre io li avevo fraintesi: non è lui che saccheggia i giornali, sono i giornalisti che lo implorano di rilanciare i loro scoop o presunti tali, sono gli editori a temere le critiche e a inseguire gli ammiccamenti, a gongolare per la visibilità su un sito che – in teoria – fa molti meno contatti delle piattaforme digitali che quelli stessi editori finanziano con milioni e milioni.
CHI CREDE IN DAGOSPIA
Insomma, Dagospia non si può fermare in Italia perché sono i giornalisti e gli editori a non credere nei loro giornali, a soffrire quando i loro articoli vengono pubblicati soltanto dalla testata che paga loro lo stipendio. E segnalare all’editore la “ripresa” da Dagospia è garanzia di applausi, da colleghi, superiori, direttori e amministratori delegati, oltre che editori.
Inoltre, giornalisti ed editori hanno paura di D’Agostino: sanno che può usare contro di loro le armi che più temono, il pettegolezzo, la satira, la derisione, ma anche l’analisi dei loro bilanci, lo sputtanamento dei loro conflittucci di interessi, delle raccomandazioni, le manifestazioni delle loro vanità.
Insomma, ero io che non avevo capito bene come funziona l’informazione in Italia. Non D’Agostino.
(…)
Ovviamente Dagospia è, esattamente come i giornali che critica, permeabile alle pressioni, soggetto alle amicizie del suo fondatore, sedotto dagli inserzionisti. Ma è tutto meno percepibile, meno sclerotizzato che nei giornali tradizionali (al punto che Dagospia si permette di sbertucciare i numerosi articoli del Corriere sul proprietario Urbano Cairo e di Repubblica sull’azionista John Elkann).
Dagospia non è meglio dei giornali che ha contribuito a uccidere, ma sicuramente non è peggio.
LA FUNZIONE DI DAGOSPIA
Soprattutto, Dagospia ha una funzione sociale imprescindibile: rappresenta la classe dirigente italiana, in particolare quella all’incrocio tra media e politica (che spesso sono quasi la stessa cosa) per come è davvero, non per come pretende di essere.
Le persone normali, quelle che non sanno bene cosa sia Dagospia, sono spesso inorridite dalla sua home page: ma perché tutte quelle parolacce, quelle volgarità? E perché le notizie di politica o finanza sono mischiate a tette e culi? Che c’entra il cruciverba, la rubrica quasi–porno, l’indovinello su di chi è la scollatura prorompente, i videogiochi, l’auto-marchetta all’ultima intervista televisiva di D’Agostino?
CLASSE DIRIGENTE O CLASSE DIGERENTE?
La risposta è che, appunto, Dagospia rispecchia la gerarchia degli interessi della classe dirigente: deputati, imprenditori di Confindustria, banchieri, direttori. Amano raccontare di leggere soltanto il Guardian, il Financial Times, o il New York Times, ma quando poi sbirci i loro smartphone sono sempre su Dagospia, e non sempre per leggere il retroscena sul risiko bancario.
Vogliono quello che in una definizione imprecisa viene riassunto come “gossip” ma che è qualcosa di più pervasivo, diciamo che è il lubrificante del capitalismo relazionale e della politica clientelare. E’ l’informazione, la maldicenza, l’allusione, che alimenta la continua catena di WhatsApp criptici, appuntamenti per caffè riservati, commenti sussurrati a fine cena.
Qualunque cosa sia quello che fa Dagospia, è l’essenza del potere romano, ma ormai anche milanese (il potere, in Italia, ha caratteristiche romane anche a Milano o Trieste).
IL CONTRIBUTO INIZIALE DI DAGOSPIA
Negli anni più sbrindellati, quando D’Agostino non era ancora limitato da quella autorevolezza che gli anni e il declino delle altre testate gli hanno conferito, Dagospia ha dato un contributo decisivo anche a stabilire l’auto-percezione della classe politica.
C’era quella rubrica, Cafonal, con le foto di Umberto Pizzi: ogni evento, ogni serata, ogni presentazione di libri o commemorazione era rappresentata come una grande abbuffata, un assalto rapace di una classe parassitaria a un Paese visto come un enorme vassoio di tartine. Tutti vogliono servirsi, e in fretta, prima che lo facciano gli altri.
(…)
Resta una domanda: ma nei prossimi 25 anni, come farà Dagospia a raccontare un’Italia che ormai si specchia nel suo sito e ne replica i tic (“Melonismo senza limitismo”, le battute più triviali (“l’affare s’ingrossa”), le ossessioni?
Se tutta Italia, o almeno tutta l’Italia del potere è diventata una grande home page di Dagospia che guarda a D’Agostino come una volta guardava a Eugenio Scalfari, come farà Dagospia a fare Dagospia nei prossimi 25 anni?
(Estratto da Appunti; qui la versione integrale)