Dal latino: “un lupo e un agnello, spinti dalla sete, erano venuti allo stesso ruscello. Il lupo stava più in alto e, un po’ più lontano, in basso, l’agnello. Allora il brigante, incitato dalla gola insaziabile, cercò un pretesto. “Perché” disse “mi hai fatto diventare torbida l’acqua, mentre sto bevendo?”. E l’agnello di risposta, tremando: “Come posso – ti prego – fare quello di cui ti lamenti, o lupo? L’acqua scorre da te alle mie sorsate!”. Quello, respinto dalla forza della verità: “Sei mesi fa” disse “hai parlato male di me!”. Rispose l’agnello: “Veramente… non ero ancora nato!”. “Per Ercole! Tuo padre” disse il lupo “ha parlato male di me!”. E così, afferratolo, lo fa a pezzi dandogli una morte ingiusta. Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti con falsi pretesti.” così scriveva il vecchio Fedro o meglio Phaedrus. Vecchio? No: profetico. Quella favola altra non è stata che l’ ante litteram del mondo reale di Vladimir Putin. E della sua voglia di ritornare agli antichi fasti del passato.
Cominciamo allora dalla pace. Che presuppone sempre l’esistenza di una guerra. Ma l’invasione dell’Ucraina, fin dall’inizio, non ha mai avuto questa dignità. Contravvenendo al principio secondo il quale “Nomina sunt consequentia rerum” quell’avvenimento, nonostante le migliaia di morti e le immani distruzioni era ed è rimasta una semplice “operazione militare speciale”. Nell’immaginario collettivo russo, nutrito costantemente dai media di regime, una specie di esercitazione: poco più di una parata, come quella che si svolge ogni anno in Piazza Rossa, accompagnata solo da qualche effetto speciale in più per renderla realistica.
Se non c’è guerra, anche giungere alla pace è molto più difficile. Ed in effetti a distanza di tre anni, nemmeno se ne parla. Se ne evoca la più astratta necessità, ma poi tutto cade in una routine negazionista. Era stato già così nel 2022, a pochi mesi dall’inizio dell’”operazione militare speciale”. I primi incontri tra le due delegazioni, guidate dai rispettivi ministri degli Esteri, avvennero a distanza di pochi giorni (il 28 febbraio ed il 3 marzo) dall’invasione prima a Gomel e poi a Brest, in Bielorussia. Da parte russa si voleva dare l’impressione che il blitzkrieg, la guerra lampo stava dando i suoi frutti. Non era così, grazie alla resistenza di un popolo, e fu solo il primo buco nell’acqua. Risultato: una semplice intesa su presunti e non rispettati corridoi umanitari per l’evacuazione dei civili.
Più concreti i successivi colloqui che si tennero a Istanbul nel luglio successivo che portarono all’”accordo sul grano”, sottoscritto da Russia e Ucraina con la mediazione di Turchia e Nazioni Unite. Non si andò oltre a causa del l’evolversi della guerra. In quella fase le truppe di Kiev sembravano avere la meglio. Il suo esercito, infatti, aveva respinto le forze avverse intorno a Kiev e mostrato al mondo le prove dei crimini russi, che avevano provocato la condanna del Mondo. I Paesi occidentali stavano, inoltre, aumentando gli aiuti militari, inasprendo le sanzioni contro Mosca: tutti fattori che rendevano Kiev meno propensa ad accogliere richieste, che somigliavano, come una goccia d’acqua, ad una capitolazione.
Lo dimostrerà successivamente il New York Times, pubblicando il relativo testo. In base a quel memorandum, l’Ucraina sarebbe dovuta diventare uno Stato permanentemente neutrale e non aderire a blocchi militari come la Nato. La Crimea sarebbe rimasta russa ma senza il riconoscimento di Kiev, che sarebbe stata costretta a non disporre di armi straniere e a ridurre le sue Forze armate, che dovevano ridursi a 85.000 effettivi, 342 carri armati e 519 pezzi di artiglieria. La lingua russa doveva essere usata su un piano paritario con l’ucraino, mentre le sorti del Donbass sarebbero state discusse in un secondo momento.
Un codicillo, l’articolo 5, svelava il vero disegno di Putin. In caso di attacco armato contro l’Ucraina, gli “Stati garanti” che avrebbero firmato il trattato – Gran Bretagna, Cina, Russia, Stati Uniti e Francia – sarebbero intervenuti direttamente in difesa dell’Ucraina. Sennonché tutto era subordinato al fatto che “tutti gli Stati garanti, Russia compresa”, avrebbero dovuto approvare l’intervento nel caso in cui l’Ucraina fosse stata attaccata. Insomma, una sorta di diritto di veto di Mosca, che di fatto le avrebbe potuto permettere di invadere nuovamente il territorio ucraino.
Finì, com’era logico che finisse. Con il lupo che accusava l’agnello di intorbidire l’acqua. Non è quindi un caso se a distanza di quasi tre anni, dopo la mancanza assordante di qualsiasi ulteriore tentativo di pace, di nuovo ad Istanbul il Cremlino – come aveva chiarito il consigliere per gli Affari internazionali Yuri Ushakov – avesse preteso che il nuovo round di colloqui riprendesse da dove le parti l’avevano interrotto, tre anni prima.
Nessun progresso quindi sul fronte della pace. Nemmeno sulla posizione minimale di una tregua di trenta giorni, per consentire alle truppe dei due schieramenti di riprendere fiato. E forse iniziare un percorso più virtuoso. Nulla di tutto questo, salvo lo scambio di mille prigionieri di guerra. Fatto da non sottovalutare, dal punto di vista umanitario, ma ben poco a che vedere con la soluzione del conflitto. Tanto più che, nel frattempo, gli attacchi con droni e missili verso varie parti di quel “martoriato” Paese, com’era solito dire Papa Francesco, raggiungevano un’intensità mai conosciuta.
Intanto Putin, chiuso nel suo eremo da mille ed una notte, faceva finta di sfogliare la margherita. Lodi sperticate nei confronti di Donald Trump, per l’equilibrio dimostrato nella vicenda. Felice del fatto che solo pochi giorni prima la delegazione americana all’ONU avesse votato a favore della Russia e contro l’Ucraina. Amicizia senza limiti con la Cina di Xi Jinping. Duro attacco contro gli Europei: bollati come incalliti guerrafondai, ritenuti, anche se non si capisce su quali basi effettive, una minaccia permanente nei confronti di Santa Madre Russia. Ma il tutto fin troppo facile da leggere. Essendo evidente l’obiettivo – d’accordo o meno con la Cina – di dividere l’Occidente per riconquistare un ruolo perduto. Come se la caduta del ”muro di Berlino” non fosse stata conseguenza delle contraddizioni storiche del “socialismo realizzato”.
Sul merito della pace, invece solo silenzio, dopo aver respinto la proposta di un intervento di Papa Leone su una possibile sede di negoziato presso il Vaticano. Con un’argomentazione che, a sua volta, la dice lunga: essendo i due Paesi belligeranti cristiano ortodossi, una sede cattolica per dirimere le divergenze era ritenuta inappropriata. Quasi a sottolineare un potenziale conflitto interreligioso. O, se si preferisce, qualcosa di simile alla risposta del lupo: “sei mesi fa hai parlato male di me”. Ed alla risposta dell’agnello, che timidamente faceva presente che a quell’epoca non era ancora nato. La replica sicura del lupo: Per Ercole! Allora era stato tuo padre”.
Ora Putin finge di meditare. Presenterà quanto prima un memorandum, come se non avesse avuto tre anni di tempo per pensarci. Che, a quanto sembra, ricalcherà con qualche minima variazione, il protocollo (bocciato) del 2022. Come nel gioco dell’oca un semplice ritorno alla casella iniziale. Basterà? Sembrerebbe di no, stando alle ultimissime dichiarazioni del Ministro degli Esteri Lavrov. Che invoca una postilla micidiale: capace di annullare l’intero processo che confermerebbe l’idea che “questa pace non s’ha da fare, né domani né mai”. Come dissero i bravi a Don Abbondio.
Sostiene Lavrov: il mandato di Zelensky è scaduto da un anno. Non ha quindi la legittimità per firmare un accordo di pace. Se anche lo facesse, il suo eventuale successore, al termine delle nuove elezioni, potrebbe impugnarlo. Preoccupazioni formalmente legittime. Ma con quali conseguenze? Bisognerebbe allora prima regolarizzare la situazione interna, sotto il diluvio delle bombe russe, visto che Mosca rifiuta una semplice tregua. E solo dopo discutere il nuovo memorandum. Tempi previsto? Sei mesi, un anno? Ma alla fine di quel periodo un’Ucraina, distratta e ripiegata sui suoi problemi politici interni, esisterebbe ancora? Torniamo a Fedro. Il lupo è ormai stanco di trovare nuovi pretesti per cui afferrato l’agnello “lo fa a pezzi dandogli una morte ingiusta.” Ma questa volta il finale potrebbe essere diverso. Se l’Occidente non perdesse memoria del suo nobile passato.