Caro direttore,
ho letto con interesse l’articolo di Start Magazine pubblicato nelle ultime ore sul possibile ingresso di Invitalia in Giochi Preziosi (sì, tranquillo, so che l’ufficio stampa della società per azioni controllata dal Ministero dell’economia e delle finanze ha precisato che l’operazione «è una delle numerose istanze di accesso attualmente in fase istruttoria da parte delle strutture tecniche del Fondo Salvaguardia e che non è stata ancora assunta alcuna decisione in merito alla sua realizzazione») e devo ammettere che mi fa molto ghignare l’idea del “gioco di Stato”.
Subito mi sono immaginato Barbie sovraniste, delle “Donne Giorgia” ammantate nel tricolore che se tiri la cordicella gridano: “Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana…” Poi però una frase dell’articolo mi ha fatto ricredere. Su Start infatti leggo che l’attuale crisi in cui versa Giochi Preziosi sarebbe dovuta, tra le varie cose, all'”aumento dei costi di trasporto”. E lì allora mi si è accesa una lampadina: vuoi vedere che i balocchi dell’ex patron del Genoa non sono tutti frutto dell’artigianato italico? Vuoi vedere insomma che lo Stato con questa operazione rischia di finanziare con soldi pubblici la distribuzione del Paese di cineserie?
Premetto, direttore, che ho smesso di giocare con soldatini e macchinine da un pezzo e che non avendo figli non ho balocchi d’alcun tipo in casa: mi sono però promesso di fare quanto prima una capatina in qualche negozio di giocattoli per andare a verificare di persona. Nel frattempo, dato che diluvia, Google è venuto in mio soccorso e ho trovato alcuni indizi che farebbero pensare che sia davvero così.
Anzitutto c’è un articolo del 2021 (se ho ben capito è proprio in quel periodo che è maturata la nuova crisi di Giochi Preziosi) del Corriere della Sera dal titolo inequivocabile: Giochi Preziosi, il caso dei porti: in Cina bloccati 5.500 container. Ecco cosa diceva il fondatore Enrico Preziosi, oggi in cerca di un salvagente tricolore: “Sono in Cina da 45 anni e lì realizziamo il 95% delle produzioni. Questo vale anche per i grandi gruppi americani perché Pechino è diventata la grande fabbrica mondiale del giocattolo”.
Dubito, direttore, che negli ultimi tre/quattro anni la situazione si sia capovolta, anche perché proprio le pagine di Start ribadiscono quotidianamente la centralità della Cina in ogni settore. L’articolo del Corriere del 2021 sottolineava come “La Cina è stata un “Eldorado per le aziende”, con costi del lavoro bassi, efficienza, certezza sugli ordini che hanno convinto a delocalizzare” e Preziosi dal canto suo si giustificava (e si lagnava) così: “Se non lo faceva l’Italia, l’avrebbero fatto Francia, Germania e Stati Uniti. Chi realizzava prodotti con plastica e metallo si rivolgeva alla Cina. Ma così abbiamo abdicato alla sua supremazia. Abbiamo fornito alla sua industria i frutti della nostra ricerca, i prototipi, il design, il saper fare tecnologico, il made in Italy a fronte di manodopera a buon mercato. È stata un’arma a doppio taglio. Entro breve tempo il costo del lavoro smetterà di essere competitivo. Il presidente Xi Jinping ha già promesso che i salari cresceranno”.
E poi appunto l’industriale parlava del ricatto cinese che, per mera logica, potrebbe essere alla base di quell’aumento dei costi nel trasporto che avrebbe aperto secondo quel che leggo sui giornali la nuova crisi economica di Giochi Preziosi: “Ho 5.500 container fermi nei porti della Cina. Per sbloccare le navi e ricevere la merce le compagnie asiatiche ci chiedono di pagare cifre astronomiche: invece dei circa 10 milioni che abbiamo sempre versato per queste spedizioni, ora ce ne vogliono più di 60. Ci tengono in ostaggio dicendo che non ci sono navi a sufficienza da inviare in Europa. E in gioco per noi c’è la campagna di vendite di giocattoli per il Natale, che dovranno essere nelle vetrine già a ottobre. Ho 2.400 dipendenti tra Italia ed Europa e un piano importante di investimenti nella Penisola. Non voglio che siano messi a rischio, quindi sto pagando”.
Non mi sono comunque fermato a quell’articolo. Mi è venuto in mente di fare un giretto virtuale sulle piattaforme online di vendita e rivendita tra privati: spesso i proprietari per attestare le buone condizioni di un prodotto fanno più foto rispetto a quelle dei siti ufficiali che se ingrandite e ispezionate a dovere possono permettere di fare scoperte interessanti. E infatti eccole qua: scritte “made in China” un po’ ovunque e sempre ben vicine al logo di mister Preziosi.
Persino i Gormiti, personaggini che qualche anno fa spopolavano tra i bimbi anche grazie ai cartoni animati e che sapevo essere stati ideati qua in Italia sono made in China. Ti allego un po’ di foto.
Ora, lo ribadisco: potrebbero essere giocattoli vecchi, avere anche più di venti o trent’anni e l’azienda potrebbe, dal 2021 a oggi (quando cioè Preziosi diceva al Corriere “Sono in Cina da 45 anni e lì realizziamo il 95% delle produzioni”) aver rivoluzionato la propria filiera. Inoltre, ciò non toglie che la salvaguardia di quei “2.400 dipendenti tra Italia ed Europa” sia di primaria importanza. Tuttavia, da contribuente vorrei sapere se i soldi delle mie tasse finiranno per importare giocattoli made in China, tirando la volata a Pechino peraltro in un periodo in cui la Ue vorrebbe imporre mini balzelli alle spedizioni dei prodotti che si acquistano sulle piattaforme cinesi. Ci sono cineserie e cineserie?
Lascio ai posteri – e magari a Invitalia – l’ardua sentenza: nel frattempo mi è proprio venuta voglia di fare un salto in un negozio di giocattoli…
Un saluto
Claudio Trezzano