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Cosa si nasconderebbe nelle borse della Valentino Bags

Amministrazione giudiziaria per Valentino Bags Lab, i giudici contestano alla società (non indagata), che ha sede nell'hinterland milanese, un presunto omesso controllo sullo sfruttamento del lavoro in alcuni opifici cinesi nella catena dei subappalti della produzione

 

Bufera su Valentino.

COSA SUCCEDE A VALENTINO BAGS LAB

La Valentino Bags Lab srl, società di produzione di borse e accessori da viaggio della controllante Valentino spa, casa di alta moda fondata negli anni ’60 del secolo scorso da Valentino Garavani e oggi di proprietà di un fondo della famiglia reale del Qatar, Mayhoola for Investment, non avrebbe “messo in atto misure idonee alla verifica delle reali condizioni lavorative” in alcuni opifici cinesi nella catena dei sub-appalti della produzione e delle “capacità tecniche delle aziende appaltatrici, tanto da agevolare colposamente soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di caporalato”.

L’AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA

Per questi motivi la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano ha disposto l’amministrazione giudiziaria per la Valentino Bags Lab srl per un presunto omesso controllo sullo sfruttamento del lavoro. Gli accertamenti in sette opifici a conduzione cinese, condotti dal Nucleo ispettorato del lavoro dei carabinieri, sono stati coordinati dal pm Paolo Storari.

UNA ESTERNALIZZAZIONE COMPLETA

Ed è proprio durante gli accertamenti che gli inquirenti hanno riscontrato l'”utilizzo e sfruttamento di manodopera irregolare e clandestina; transito degli oggetti irregolari da un opificio all’altro; presenza, in tutti i casi esaminati, del medesimo committente della produzione in sub appalto”.

DISPOSITIVI DI SICUREZZA RIMOSSI DAI MACCHINARI

Secondo l’accusa l’azienda appaltatrice non avrebbe alcuna reale capacità produttiva, solo la “campionatura del materiale” e l’esternalizzazione sarebbe totale e permetterebbe di abbattere i costi “grazie all’impiego di manodopera irregolare e clandestina”. La sicurezza degli operai del settore moda è stata messa a rischio “dalla rimozione di dispositivi di sicurezza dalle macchine (spazzolatrici, incollatrici, adesivatrici, macchine spaccapelle)” e “dalla non corretta custodia dei materiali chimici e infiammabili”.

COSA HANNO TROVATO GLI INQUIRENTI NEI CAPANNONI

Nei capannoni sarebbero emerse situazioni estremamente critiche: dormitori abusivi, “ragazze cinesi” che avviavano l’attività di “cucitura” e “incollaggio pelli” prima delle 8 e dopo le 19 “continuano ancora”, lavoratori “in nero” che “dormono e mangiano al piano superiore”.

OPERAI “SEMPRE A DISPOSIZIONE DEL DATORE DI LAVORO”

E sono proprio le situazioni abitative ad aver attratto l’attenzione degli inquirenti: oltre agli “ambienti abusivi e insalubri” a tal punto da essere definiti “degradanti” per via di “condizioni igienico sanitarie sotto minimo etico”, il fatto che fossero negli “stessi luoghi di lavoro o in stabili adiacenti”, fa ritenere che gli operai fossero “sempre a disposizione del datore di lavoro e di fatto continuamente sorvegliati”, ovviamente con pagamenti “sotto soglia”. Una modalità rodata e perfezionata in modo tale che per evitare blocchi nella produzione vi sarebbero stati passaggi di “blocchi di lavoratori”, anche filippini, da un opificio all’altro.

“UNA ILLECITA POLITICA DI IMPRESA”

La procura parla in merito di “una prassi illecita così radicata e collaudata da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa diretta all’aumento del business”.

Lo schema utilizzato per aumentare i margini sarebbe dunque “un’illecita politica di impresa” ovvero “un processo di decoupling organizzativo in forza del quale, in parallelo alla struttura formale dell’organizzazione volta a rispettare le regole istituzionali (codici etici, modelli organizzativi, che però hanno una funzione meramente cosmetica), si sviluppa un’altra struttura, informale, volta a seguire le regole dell’efficienza e del risultato”.

I REATI FISCALI

Per la sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano dai fornitori del brand “vengono completamente evase le imposte dirette” e “relative al costo dipendenti” come “contributi, assicurazione infortuni”. Le aziende hanno omesso “tutti i costi relativi alla sicurezza, sia dei dipendenti che degli ambienti di lavoro” con assenza di “visite mediche” e formazione”.

IL “MANCATO CONTROLLO” DELLA VALENTINO BAGS LAB

Per i giudici Rispoli-Spagnuolo Vigorita-Canepari nel decreto di commissariamento: “È fuori di dubbio che Valentino Bags Lab non abbia effettivamente controllato la catena produttiva, verificando la reale capacità imprenditoriale delle società con le quali stipulare i contratti di fornitura e le concrete modalità di produzione”.

I PRECEDENTI CHE NON HANNO DISTOLTO L’AZIENDA DAL PERSEVERARE

Non è la prima volta che le case dell’alta moda vengono pizzicate mentre risultavano distratte: misure analoghe negli anni sono state prese anche nei confronti di altri grandi marchi, procedimenti tutti conclusi positivamente con la revoca della misura dopo percorsi virtuosi.

Ed è proprio questo aspetto a essere sottolineato dagli inquirenti in quanto la Valentino Bags Lab, nonostante queste vicende abbiano avuto “risonanza mediatica” – scrivono i giudici – “ha continuato ad operare con fornitori che sfruttano i lavoratori e che utilizzano manodopera in violazione delle norme di sicurezza”.

Il Giornale sottolinea che agli atti vi sarebbero le dichiarazioni di un responsabile di Bags Milano, ditta cui la Valentino Bags Lab dal 2018 commissionava circa 4mila borse al mese, con costi che oscillavano tra i 35 e i 75 euro a pezzo (per poi finire sul mercato della griffe a 2-3mila euro) che rischia di incidere sul grado di rappresentazione della realtà dell’appaltante: “Valentino Bags Lab non le autorizza, anche se ne è a conoscenza perché io lo comunico, diciamo che chiudono un occhio”.

 

 

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