Ha ragione Marcello Veneziani: “Ma dove sta scritto che lo Stato debba finanziare il cinema?”. Ne avevamo accennato, alla contraddizione per cui gli artisti lamentano presunti tagli ai film italiani da parte del governo ma non si chiedono perché sempre meno gente vada a vederli, ma merita di tornarci. Il parallelo immediato è con la libertà di stampa: i giornalisti che aggrediscono Meloni perché li limiterebbe prendono lo stipendio grazie anche ai fondi per l’editoria che la Presidenza del Consiglio elargisce, in misura persino superiore al passato. L’attore Riondino, qualche giorno fa, ha raggiunto il record di questa contraddizione dicendo, a poche righe di distanza nella stessa intervista, che il suo intento è di invitare il Governo a un tavolo di confronto e che il suo collega Elio Germano aveva ragione di sfruttare l’invito dal Presidente della Repubblica per inscenare un appello-protesta sul cinema italiano minacciato.
Ma come? Ti faccio fare una figura barbina col capo dello Stato per chiederti di parlare? La contraddizione è tanto stridente che non ha neppure venature ideologiche. Anche Pupi Avati, che passa per essere uno dei pochi registi non di sinistra, lamenta il mancato accoglimento da parte dell’attuale maggioranza delle sue salvifiche proposte per la settima arte italica, tra le quali un ministero dedicato. Il concetto, appunto, non è di destra o di sinistra, anzi è un “l’una o l’altra basta che se magna”. Dietro le proteste in difesa di arte e informazione c’è un banale problema di soldi. È il pubblico a doverle sostenere se i pubblici paganti non ci sono più.
Ha ragione Veneziani: perché? Lo Stato non dovrebbe perseguire l’interesse collettivo? E allora, se non siamo più interessati al giornalismo e ai lungometraggi in quanto preferiamo legittimamente altre forme di comunicazione come i social media e le serie tv, gli influencer e i reel? “In base a quale automatismo etico, ideologico, industriale si deve imporre questo assistenzialismo, questo protezionismo, questo statalismo?”. Liberal-liberisticamente sacrosanto. Ci chiediamo solo se altrettanto rigore lo si applicherebbe a tutti i campi che risentono di analoghe crisi di consenso: la politica, per esempio, dove potremmo assegnare i seggi in base al numero dei votanti; oppure l’editoria periodica e libraria, che godono ancora di molte agevolazioni; ma addirittura la formazione scolastica e superiore, sconfessate da abbandono degli studi e diminuzione di immatricolazioni.
Perché non possiamo accettare, semplicemente, che libri e giornali cartacei, docenti e lezioni frontali, visioni in cinemascope e con audio surround, tesserini dell’Ordine dei giornalisti e testate registrate siano parte di un mondo che sta scomparendo? Basta osservare qual è il loro gradimento nelle nuove generazioni, per rendercene conto. Non lo accettiamo per la presunzione che carta stampata, libreria, biblioteca, edicola, sala cinematografica, aula universitaria e scolastica non siano meri strumenti del bene che chiamiamo conoscenza e cultura ma loro depositari esclusivi. Assieme ad altri, altrettanto in crisi, come ricercatori e laboratori. Quindi, se anche i pubblici non sono più interessati, c’è un “bene pubblico” superiore che va imposto a suon di erogazioni sicure. Un adattamento del principio di Marshall McLuhan “il medium è il messaggio”.
Spessissimo, i difensori di questo mondo antico che pare inesorabilmente avviato al tramonto sono persone che non hanno battuto ciglio di fronte alla demolizione di altri ambiti sociali, come la famiglia tradizionale o la pratica religiosa. Pochi giorni fa in un quiz televisivo è stato chiesto “ci si va la domenica” e proposta una parola di cinque lettere con M iniziale. Il concorrente non ha subito indovinato “Messa”. Abbiamo accettato o assecondato questa trasformazione e ora ne vogliamo bloccare un’altra? Intelligenza artificiale e telefonini sono straordinari facilitatori di informazione e comunicazione, troppo più comodi di quelli tradizionali perché si possa ostacolare i primi o promuovere i secondi a colpi di legge.