Se non si conta la toccata e fuga a Roma per il funerale di Papa Francesco, Donald Trump per il suo primo viaggio ufficiale all’estero dopo il suo nuovo insediamento alla Casa Bianca ha scelto i paesi del Golfo. Una visita trionfale in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Tanti gli accordi economici multimiliardari annunciati ma ad emergere sono stati anche alcuni spunti diplomatici, emblematici degli interessi degli Stati Uniti nella regione mediorientale. Per analizzarli, abbiamo sentito Emily Tasinato, Pan European Fellow presso l’ufficio di Roma dello European Council on Foreign Relations (Ecfr) ed esperta di Paesi del Golfo.
Qual è, se c’è, il disegno geopolitico dietro il viaggio di Trump e dietro questi accordi commerciali con i Paesi del Golfo?
Investimenti di alto profilo, cooperazione in settori chiave quali difesa e energia, spinta ad ampliare la collaborazione con i Paesi arabi del Golfo, soprattutto nel campo dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie avanzate, rappresentano la priorità nell’agenda di Trump. Lo hanno confermato gli accordi per un valore di oltre 300 miliardi di dollari che l’Arabia Saudita ha firmato con gli Stati Uniti, con la promessa di Mohammed Bin Salman di arrivare a un trilione. Tuttavia, queste cifre sono abbastanza improbabili considerando i problemi di liquidità del paese. Nel caso saudita l’aspetto propriamente economico ha prevalso, anche rispetto agli accordi in tema di difesa. In Qatar è stato firmato un accordo per generare uno scambio economico, nel quadro dei prossimi 10 anni, del valore di almeno 1,2 trilioni di dollari. Anche la tappa emiratina sarà concentrata su tre priorità: economia, investimenti, tecnologia. In generale, Trump è consapevole della centralità politico-diplomatica ed economico-finanziaria dei paesi arabi del Golfo, non soltanto sullo scacchiere regionale, ma anche su scala internazionale. I Paesi del Golfo stanno emergendo come epicentro della competizione globale per l’intelligenza artificiale e si vogliono affermare come hub tecnologici internazionali. Per Washington mantenere la leadership mondiale nell’intelligenza artificiale è una questione di sicurezza nazionale, nel quadro della competizione con la Cina. Pertanto, le monarchie del Golfo sono partner assolutamente prediletti da Trump.
Trump ha in mente un cambiamento degli equilibri nella regione?
Se guardiamo al contesto geopolitico, la visita di Trump nel Golfo si iscrive in un quadro regionale scandito dai colloqui sul nucleare con l’Iran e dall’inaspettato annuncio da parte di Washington di una tregua con gli Houthi dello Yemen – che, però, esclude Israele. In Arabia Saudita, inoltre, Trump ha annunciato la decisione di revocare le sanzioni alla Siria e ha incontrato Al-Sharaa, segnalando un importante cambiamento di politica statunitense nei confronti del teatro siriano. È importante sottolineare come l’attuale quadro regionale si presenti completamente diverso rispetto a quello del 2017. Pensiamo al dossier Iran. L’attuale approccio pragmatico della Repubblica Islamica e il sostegno di Teheran alla diplomazia in corso con gli Stati Uniti si fonda su due concetti chiave: in primo luogo, qualsiasi conflitto armato sarebbe devastante per l’Iran; e in secondo luogo, senza la revoca delle sanzioni statunitensi, il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo economico risulterebbe irraggiungibile. Pertanto, superare l’impasse relativa al programma nucleare per liberare l’Iran dall’isolamento economico che il Paese sta vivendo dal 2006 rappresenta una priorità assoluta nell’agenda della politica estera iraniana. Per quanto riguarda Trump, il presidente statunitense non è assolutamente propenso a scatenare una guerra su vasta scala nella regione. È importante ricordarlo, Trump è stato eletto anche per la sua promessa di porre fine agli infiniti coinvolgimenti militari americani in Medio Oriente. In questo quadro, credo che anche la distensione diplomatica tra Teheran e Riyadh stia giocando a favore dei negoziati in corso tra Stati Uniti e Iran. Viceversa, è Israele l’attore spoiler che potrebbe trascinare gli Stati Uniti in un’altra guerra.
Da parte dei paesi del Golfo, oltre al riconoscimento del proprio ruolo nella regione, quali sono i loro interessi nello stringere accordi e una partnership con gli Usa?
Di base c’è l’interesse a rafforzare la partnership economica con gli Usa. Per esempio, l’impegno saudita ad investire 600 miliardi vuole essere, in primis, un chiaro messaggio politico: della serie, noi siamo un mercato appetibile per il vostro business, noi possiamo investire nel vostro business, siamo partner strategici. L’Arabia Saudita e le altre capitali arabe del Golfo stanno bilanciando le proprie relazioni internazionali, relazionandosi ad altre potenze globali quali la Cina e la Russia. Tuttavia, quando si tratta di settori altamente strategici, il partner prediletto è Washington.
Tutto ciò non fa piacere a Israele. Tel Aviv si è dimostrata inquieta rispetto alle ultime iniziative di Trump. Ci può essere un raffreddamento delle relazioni tra Israele e Stati Uniti?
Ma i rapporti tra Trump e Netanyahu, in generale, non sono così idilliaci. Trump, che non ha fatto menzione del piano “Riviera” durante il tour nel Golfo, è stanco delle scelte politiche israeliane in riferimento alla guerra di Gaza. Ci sono forti pressioni su Israele da parte di Washington, tuttavia Israele si sta preparando a una massiccia operazione per radere al suolo e occupare l’intera enclave.
Quanto è verosimile un allargamento degli accordi di Abramo agli altri paesi del Golfo e mediorientali?
Per quanto riguarda la normalizzazione dei rapporti tra Israele e il mondo arabo credo che la chiave “di legittimazione” sarà, per l’appunto l’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita è interessata a normalizzare i rapporti con Tel Aviv. Quegli stessi incentivi che avevano portato il regno saudita a considerare una normalizzazione dei rapporti con Israele non sono di certo venuti meno con lo scoppio della guerra. I benefici derivanti dall’apertura all’economia israeliana – una delle più dinamiche, tecnologiche e innovative della regione – rispondono agli ambiziosi obiettivi di Vision 2030 per una rapida diversificazione e modernizzazione dell’economia e della società saudita. Ma nelle condizioni attuali Riyadh non può permetterselo. In tale contesto, la partita diplomatica di Mohammed bin Salman si gioca sull’effettiva capacità di gestire l’attuale approccio trumpiano vis-à-vis Gaza, attendere condizioni politiche più idonee – come la dipartita politica di Netanyahu – per normalizzare i rapporti diplomatici con Israele senza, al contempo, dare l’impressione di aver indietreggiato rispetto alla richiesta ufficiale di una Palestina indipendente. Per ora, Arabia Saudita e Stati Uniti stanno avanzando su altri fronti, quali la cooperazione sul programma nucleare civile saudita, indipendentemente dalla normalizzazione tra Riyadh e Tel Aviv. Nel settore della difesa, un patto sullo stile della Nato rimane sfuggente ma l’amministrazione Trump e la leadership saudita stanno comunque investendo nella cooperazione strategica in tale dominio attraverso, per esempio, massicce vendite di armi.