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Paxton

Dopo Meta, tocca a Google. Ken Paxton continua a terrorizzare le Big Tech

Il procuratore generale del Texas lo scorso anno aveva spinto Meta a siglare un accordo per un risarcimento record (1,4 miliardi di dollari) così da lasciare cadere le accuse di violazione della privacy. Oggi Paxton ritorna sui giornali per una vittoria analoga: questa volta a pagare 1,3 miliardi sarà Google.

Il procuratore generale del Texas Ken Paxton (in foto) continua a essere lo spauracchio delle Big Tech americane troppo leggere quando si parla di privacy. Nel luglio scorso infatti il suo ufficio aveva piegato Meta ad accettare un accordo da 1,4 miliardi per chiudere il contenzioso sull’acquisizione non autorizzata di dati biometrici personali.

La Big Tech di Menlo Park aveva accettato e lo Stato meridionale aveva così ottenuto la più grande offerta mai seguita da un’azione intentata da un singolo Stato. Secondo gli annali giudiziari americani, prima di allora la vittoria più grande in termini monetari era stata portata a casa da una coalizione multistatale che includeva quaranta nazioni americane che avevano messo in tasca 391 milioni di dollari, quasi un miliardo di dollari in meno rispetto al risarcimento spuntato dal Texas. Oggi Paxton continua a fare notizia grazie a somme affini, questa volta pagate da Google.

PAXTON OTTIENE DA GOOGLE 1,3 MILIARDI

Google, secondo quanto comunica l’ufficio di Paxton, ha infatti accettato di pagare al Texas 1,3 miliardi di dollari per far cadere le accuse di violazione della privacy dei dati degli utenti.

Accuse mosse ancora una volta dal procuratore generale in carica dal 2015 che animavano ben due cause legali incentrate su tre prodotti. Festeggia Paxton: “In Texas, le Big Tech non sono al di sopra della legge”.

Il procuratore poi ribadisce le accuse: “Google ha tracciato segretamente i movimenti delle persone, le ricerche private e persino le loro impronte vocali e la biometria facciale attraverso i suoi prodotti e servizi”.

LE CAUSE TEXAS VS GOOGLE DEL 2022

Paxton aveva citato in giudizio Google due volte nel 2022 sostenendo che Mountain View avesse raccolto dati protetti dal diritto alla riservatezza senza ottenere il consenso degli internauti texani.

Secondo l’impianto accusatorio del procuratore, Google aveva tracciato la posizione degli utenti anche quando questi ultimi disattivavano la funzione, ingannandoli sulla raccolta dati della modalità di navigazione in incognito, che dovrebbe garantire la privacy. Ma adesso con questo accordo da 1,3 miliardi di dollari l’accusa non sarà più chiamata a provare le proprie tesi.

I dettagli dell’accordo non sono stati divulgati e il procuratore generale non ha specificato se, come accade solitamente in casi analoghi, i soldi versati da Mountain View verranno impiegati in azioni riparatorie ad hoc. In precedenza, Paxton aveva raggiunto accordi da 700 milioni di dollari e da 8 milioni di dollari con Google per pratiche commerciali anticoncorrenziali e ingannevoli.

COSA DICE GOOGLE

Taglia corto Google che ha affermato di aver voluto chiudere controversie che si trascinavano da tempo, rigettando l’ipotesi della sussistenza di illeciti. “Questo accordo risolve una serie di vecchie controversie, molte delle quali sono già state risolte altrove, riguardanti le policy sui prodotti che abbiamo modificato da tempo”, ha dichiarato José Castañeda, portavoce di Google. “Siamo lieti di averle lasciate alle spalle e continueremo ad integrare solidi controlli sulla privacy nei nostri servizi”.

LA CAUSA CONTRO META

Venendo invece all’altro accorto miliardario chiuso con Meta nel luglio del 2024, l’accusa mossa a Menlo Park era di aver acquisito illegalmente i dati biometrici di milioni di texani senza ottenere il loro consenso informato.

Nello specifico, per il procuratore la raccolta di dati da parte di Meta avrebbe violato il “Capture or Use of Biometric Identifier” Act del Texas e il Deceptive Trade Practices Act.

Secondo il teorema accusatorio elaborato da Paxton, all’insaputa della maggior parte dei texani e per oltre un decennio Meta avrebbe utilizzato un software di riconoscimento facciale su ogni volto presente nelle fotografie caricate su Facebook, acquisendo informazioni sulla geometria facciale delle persone ritratte.

Anche in quel caso, esattamente come nelle cause contro Google, il pagamento di 1,4 miliardi di dollari aveva permesso all’ufficio del procuratore di non dover dimostrare le proprie accuse e alle Big Tech di sottrarsi a giudicati potenzialmente più lesivi.

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