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‘’Presidente, le porto l’Italia del 18 aprile 1948’’. Cosa doveva dire Meloni a Trump

Considerazioni a margine della visita di Meloni alla Casa Bianca.

Varcando la soglia della Casa Bianca Giorgia Meloni avrebbe dovuto dire a Donald Trump che l’accoglieva: “Presidente, le porto l’Italia del 18 aprile 1948’”. Probabilmente Trump non avrebbe capito subito e avrebbe chiesto spiegazioni, consentendo a Meloni di raccontare al suo interlocutore che in quel giorno gli italiani avevano scelto liberamente i valori e le istituzioni dell’Occidente e l’amicizia con gli Usa. Magari la premier farebbe bene a ricordare la ricorrenza di quell’evento anche in Italia, fin dall’inizio della prossima settimana quando, in attesa della Festa della Liberazione, le opposizioni la sottoporranno al test dell’antifascismo, mettendo in dubbio la sua legittimità etica a governare l’Italia nata dalla Resistenza.

Non è casuale che quell’evento tanto significativo nella vita del Paese passi di solito sotto silenzio (anche da parte di coloro che avrebbero il diritto –per ragioni di discendenza – di rivendicarne il titolo e  – perché no? – il merito) come se quelle prime elezioni politiche  nell’Italia democratica (gli italiani erano andati in precedenza alle urne per il referendum istituzionale, l’elezione della Assemblea Costituente e la consultazione amministrativa) segnassero una sconfitta per le speranze di quanti avevano combattuto per il riscatto dell’Italia; tutto ciò quando, invece, la vittoria delle forze democratiche salvò anche la sinistra da se stessa.

Lo scenario era quello dell’avvio della guerra fredda, che dall’esterno si trasferì all’interno del Paese e in tutta l’Europa. La DC e i suoi alleati si schierarono con il mondo libero mentre il Pci e gran parte del Psi (dal quale a partire dal 1947 si scissero le correnti socialdemocratiche) diedero vita ad un Fronte popolare, col simbolo di Garibaldi,  di orientamento filosovietico. Di mezzo c’era anche il problema dell’adesione al Piano Marshall che comportava nei fatti l’appartenenza allo schieramento occidentale, tanto che il 20 marzo  l’amministrazione americana fece sapere che la vittoria di forze ostili agli Usa sarebbe stata considerata come un rinuncia ai finanziamenti del Piano, peraltro duramente contestato da Stalin in quanto strumento di sottomissione all’imperialismo yankee. Così, i partiti comunisti occidentali (in Francia e in Italia) diventarono tutti sovranisti.

Come si legge in un resoconto di un colloquio con il segretario del PCF Maurice Thorez nel novembre del 1947 a proposito del Piano Marshall, Stalin suggeriva così la linea di condotta: ‘’I comunisti sono a favore di prestiti – diceva il Piccolo Padre – purchè  non tocchino la sovranità del Paese; e sono contrari a condizioni soggioganti che danneggino l’indipendenza francese. Ecco come i comunisti – concludeva Stalin – devono presentare il problema’’. In prossimità delle elezioni politiche nel Pci e nel Fronte Popolare cresceva la fiducia della vittoria (il solito vizio di scambiare la mobilitazione delle piazze con il silenzio delle urne). La Chiesa cattolica, con  Papa Pio XII, si mobilitò contro le sinistre e mise in campo i c.d. Comitati civici diretti da Luigi Gedda che si impegnarono nella campagna elettorale.

Chi scrive allora era un bambino, in grado tuttavia di ricordare il clima di quelle settimane. Mi rimase impressa la lotta a base di manifesti. Non c’era nella mia città (Bologna) un brandello di muro che, a qualunque altezza, non fosse ricoperto di carta. Persino la Torre Asinelli era oggetto della competizione a base di carta, colla e pennello. Per i bozzetti dei manifesti, si mobilitarono disegnatori,  creatori di slogan, caricaturisti e quant’altro (ricordo una rappresentazione del leader socialista Pietro Nenni in piedi davanti a un vaso da notte con un fumetto che lo invitava: ‘’Su Pierino fa pipì nel vasino del Pci’’). Dal canto loro i ‘’frontisti’’ appendevano manifesti epici  in cui era ripresa l’effige di Garibaldi che caricava una congrega di preti, padroni e piccoli zio Sam guerrafondai. Alla sinistra però nuocevano le notizie provenienti dai Paesi sottoposti all’egemonia sovietica, nei quali i partiti comunisti stavano prendendo brutalmente il potere dando vita ai regimi di ‘’democrazia popolare’’.

Grande impressione fece la minaccia della Cavalleria cosacca impegnata ad abbeverare i cavalli nelle fontane di  Piazza San Pietro. La partecipazione alle elezioni fu elevatissima (più del 92%). Ancor più clamorosi furono i risultati del voto: la Dc ottenne alla Camera il 48,5%  con 305 seggi su 574 (il 2 giugno 1946 nell’elezione della Assemblea Costituente si era fermata al 35,2%). Il Fronte democratico popolare si accontentò  del 31% con 183 seggi (contro il 39% della somma dei due partiti, il 2 giugno 1946). I monarchici il 2,8% e 14 seggi, il MSI il 2% e 6 seggi. I socialdemocratici il 7,1% e 33 seggi; il Blocco nazionale (liberali e UQ) 3,8% e 19 seggi; il Pri il 2,5% e 9 seggi. Anche al Senato la Dc ottenne 131 seggi e il Fronte 72 su di un totale di 237 (si osservi questo numero che non è molto superiore a quello a cui è stato portato ora il Senato dopo la modifica costituzionale confermata dal referendum).

Nonostante  che la Dc avesse ottenuto la maggioranza assoluta Alcide De Gasperi volle allargare il governo anche alle altre forze di centro e di centro sinistra. Le coalizioni ‘’centriste’’ (Dc, Psdi, Pri, Pli) mantennero, in varie formazioni, il governo del Paese fino ai primi anni ’60 quando iniziarono i rapporti con il Psi (nel frattempo resosi autonomo dal Pci) che portarono al primo governo organico di centro sinistra nel 1964. Nel maggio del 1948 fu eletto il liberale Luigi Einaudi alla Presidenza della Repubblica.

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