Pare che la proposta migliore per acquisire la ex Ilva, secondo i commissari straordinari, sia quella della compagnia azera Baku Steel Company e dalla holding statale Azerbaijan Investment Company, fondo sovrano controllato dal ministero dell’Economia del paese ex sovietico. L’offerta prevede un miliardo di euro, di cui la metà a titolo di valorizzazione del magazzino, e investimenti per quattro miliardi in cinque anni.
L’offerta degli azeri
Nella proposta azera, gli occupati ex Ilva dovrebbero scendere a circa 7.800 contro i poco meno di 10 mila in organico oggi, di cui 8 mila a Taranto. A regime, previsto un altoforno e due forni elettrici, che col tempo dovrebbero diventare tre, dopo la chiusura dell’altoforno. Produzione prevista, 6 milioni di tonnellate. Nel 2023 l’impianto di Taranto ha prodotto meno di 3 milioni di tonnellate di acciaio e nel 2024 solo 2 milioni. Oggi sono attivi due altiforni su quattro.
L’offerta azera prevede anche l’utilizzo di una nave rigassificatrice per fornire il gas necessario all’impianto. Dall’Azerbaijan proviene il gas che giunge in Italia attraverso la Trans Adriatic Pipeline, TAP. Gli azeri hanno prevalso sugli indiani di Jindal Steel ma quest’ultimi potrebbero entrare nell’operazione con una quota della nuova società, anche per evitare contenziosi. Possibile anche un ingresso pubblico italiano, non è ancora chiaro di quale entità e con quale veicolo.
Sull’operazione restano varie perplessità: Baku Steel è una realtà molto piccola, nel 2024 ha prodotto 350 mila tonnellate di acciaio; appartiene ad un paese che non è una democrazia e ha stretti legami con la Russia. Poi, servirà passare attraverso il negoziato sindacale e le valutazioni del ministero della Salute italiano. Un percorso non semplice, nessuno lo nega.
Ma esistevano alternative? Si direbbe di no, viste le offerte. Molte delle quali prevedevano lo spezzatino dell’azienda, non scordiamolo. Il problema è la congiuntura e l’eccesso di capacità produttiva di settore, sotto i colpi dell’export cinese e dei dazi americani. La ex Ilva è un enorme bubbone con potenziali di perdita molto elevati in ragione della leva operativa, cioè dell’incidenza di costi fissi. Un’Alitalia agli steroidi, per brutale sintesi.
La svendita immaginaria
Per questo mi stupisce ma non troppo leggere l’editoriale di Massimo Giannini su Repubblica, che immancabilmente se la prende col governo Meloni, chiedendosi
[…] come sia possibile che, per salvare l’Ilva, non si riesca a mettere insieme una cordata italiana, o ancora meglio europea, e si debba andare col cappelluccio in mano dai boiardi azeri di Baku Steel.
E trova criticità di ogni tipo, dai forni elettrici “che richiedono più tempo e meno personale” (ma non eravamo impegnati nella decarbonizzazione?), all’immancabile “macelleria sociale” dei tremila posti di lavoro in meno rispetto all’attuale assetto ormai anacronistico per sovradimensionamento, al regime autorizzativo: il vero Vietnam passato, presente e futuro.
E si arriva quindi a parlare di “svendita”, che è un po’ un riflesso pavloviano di questa era di sovranismo di ogni colore, ma di coazione a ripetere la polemica politica contro l’esecutivo pro tempore. Fortunatamente, pur se in modo contraddittorio rispetto alla sua tesi, Giannini si ricorda che, per l’ex Ilva, il problema è la politica non di oggi né da oggi:
Sulla siderurgia e sull’Ilva tutta la politica italiana ha sempre parlato con lingua biforcuta, dai fasti dello Stato Padrone ai raggiri di Mittal. Renzi e Calenda, Conte e Salvini: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Anzi, il primo tondino.
Ecco, appunto. Ma se questa è la conclusione, anche prendersela pavlovianamente col governo Meloni ha poco senso. Al punto da lagnarsi anche dei famigerati prestiti ponte. Molti dei quali sarebbero stati necessari (parliamo al passato e incrociamo le dita) nell’attesa della vendita perfetta e immacolata. Per anni la politica ha usato l’occupazione come variabile indipendente, soprattutto dalla realtà, subordinando ad essa piani industriali con volumi produttivi di pura fantasia. Se ora la sveglia suona per l’ennesima volta, possiamo prendercela coi “liquidatori” di ultima istanza, che tali non sono visto che l’impianto auspicabilmente avrà continuità produttiva?
E soprattutto, Giannini sa perfettamente che la condizione globale della siderurgia è quella di un settore con drammatico eccesso di capacità produttiva, che porta a sperare che un concorrente chiuda, per proseguire nella via crucis della stabilizzazione dei prezzi. Che sta diventando un miraggio. Di quale “cordata europea” stiamo fantasticando?
Il rischio della quota pubblica
Quindi sì, il compratore è “strano”, non proviene da Westminster e dalla democrazia liberale, il percorso sarà molto accidentato e si rischia l’ennesima coazione a ripetere, tra sindacati e magistratura. Soprattutto, con una eventuale presenza pubblica italiana nel capitale della nuova entità. Forse Giannini dovrebbe sentirsi rassicurato da questa eventualità e non parlare di svendita. Io invece sono molto preoccupato, come contribuente italiano.
Avremmo una presenza pubblica di tipo esclusivamente finanziario? Temo di no, almeno sentendo come si esprime Adolfo Urso. E quindi, cosa? Aiuti agli azeri, sottoscrizione di nuovi aumenti di capitale con soldi pubblici alla prossima difficoltà? In quella circostanza, credo che Giannini scriverebbe di “soldi pubblici gettati nell’altoforno”, però. E invocare il solito equivoco semantico della “politica industriale”, quando quello che un tempo si chiamava ministero dell’Industria e poi dello Sviluppo economico ed ormai da molto tempo è solo un cronicario, rappresenta un autoinganno che un giorno uno psicanalista della politica dovrà risolvere.
La ex Ilva è “solo” l’ennesima conferma di un sistema paese ammalorato il cui prodotto tipico è la creazione di Bad Company. Buttare tutto sulla polemica politica di legislatura non ci farà progredire sulla via dell’autocoscienza.
(Estratto da Phastidio.net)