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Manovra, serve ancora il bipolarismo perfetto?

Il dibattito sulla Manovra riapre la questione di un bicameralismo bizantino. Meglio una Camera con potere legislativo e competenze tecniche. Il commento di Battista Falconi

Il dibattito apertosi sulla legge di Manovra, con le annunciate dimissioni di Guido Liris, capogruppo in commissione Bilancio di Fratelli d’Italia (non di Forza Italia o della Lega e tanto meno dell’opposizione, è questo soprattutto a fare scalpore), ha acceso una luce su uno dei bizantinismi che ingessano e rallentano la macchina decisionale politica. Liris critica quello che chiama il “monocameralismo di fatto” e chiede il ritorno alla doppia lettura parlamentare, desaparecido dal 2018. Il testo è arrivato al Senato già blindato, troppo tardi per ipotizzare modifiche, figuriamoci se si fossero vagliati gli oltre 800 emendamenti proposti. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, concorda sulla necessità di una riforma, “regole da rivedere”. Oggi pertanto è previsto al Senato soltanto il voto per l’approvazione definitiva.

Ragioniamo da ignoranti sempliciotti. L’iter tradizionale prevede l’approvazione della legge nell’identico testo da parte delle due Camere, in ciascuna delle quali il lavoro di proposta, discussione, modifica e approvazione è ripartito tra Commissioni e Aula. Un rimpallo interno ed esterno, che richiede tenacia non comune a chi se ne fa motore e latore. Il lavoro dei parlamentari eletti dal popolo consiste soprattutto in questo, ma spesso se ne lamentano l’inefficienza e l’assenteismo che, in effetti, risulta talvolta eclatante. La riduzione del numero di un terzo di senatori e deputati avrebbe dovuto rimediare a queste defaillances, oltre che ridurre i costi dei “palazzi”, ma entrambi gli obiettivi non sono stati raggiunti in misura soddisfacente.

A questa procedura lenta e spesso farraginosa si rimedia da parte dell’Esecutivo con l’uso della decretazione, l’emanazione in Consiglio dei ministri di provvedimenti di diretta espressione della volontà della maggioranza. Un costume che, in modo speculare e alternato, deputati e senatori di opposizione rimproverano a Palazzo Chigi muovendo l’accusa retorica di esautoramento delle prerogative del Parlamento, vulnus alla democrazia, rischio autoritario, lesione della volontà popolare. Altrettanto alti lai si levano quando il Governo impone la fiducia per approvare una legge, come accadrà oggi per la manovra. Per quanto il ricorso a questi escamotage si stia intensificando, il presunto scandalo viene rimproverato sempre e solo dalla minoranza alla parte opposta.

Da ignoranti sempliciotti, ci sorgono almeno tre considerazioni spontanee. La prima è che, negli iter legislativi, i Ministri sono i rappresentanti del popolo meno presenti: giustificati, poiché impegnati nel loro dicastero di competenza. Ma non sarebbe opportuno, per mantenere distinti il potere legislativo ed esecutivo, che i Ministri si dimettessero da parlamentari? Si risolverebbe così anche il problema dell’iniqua sperequazione retributiva alla quale, nei giorni scorsi, si era proposto di rimediare alzando il gettone dei membri di Governo non eletti.

Seconda questione: perché non si è ridotto il numero di parlamentari, dall’originario migliaio, abolendo una camera anziché tagliando i componenti di entrambe? Qualunque sia la ragione da cui prende le mosse il bicameralismo, oggi i suoi limiti appaiono ben superiori ai presunti vantaggi e il problema sollevato per la Manovra potrebbe essere più agilmente risolto sottoponendola a un unico passaggio.

Qui si arriva al nodo, il rispetto della volontà dei cittadini che affidano il governo del Paese a una maggioranza politica, partiti e uomini indicati di fatto prima del voto. E che preferirebbero vedere le persone da loro incaricate attuare il mandato conferito in modo celere, per poi giudicare il lavoro svolto e decidere se confermarle o sostituirle. Abbiamo fatto ammissione di semplicismo, ma il senso così tratteggiato non ci pare troppo lontano dal vero, né ci pare confutabile che il nostro sistema istituzionale stia ottenendo risultati nettamente migliori rispetto a Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna o Stati Uniti, per non parlare di nazioni nel caos come Romania e Georgia. Merito soprattutto di governi di coalizione, come con Berlusconi e Forza Italia 20 anni fa e con Meloni e Fratelli d’Italia oggi, con un leader e una forza trainanti: i due fattori sono ineludibili e le opposizioni devono attrezzarsi, il Pd pare sulla strada giusta in termini di consenso, ma Schlein è ancora molto lontana dall’autorevolezza necessaria.

Allora, spingiamoci oltre: perché non abolire o almeno ridurre ulteriormente, snellire ed efficientare il Parlamento? Perché non istituire una sola Camera strutturata in commissioni con potere legislativo e competenze tecniche sui temi trattati? Non per tornare ai Fasci e corporazioni, ma per dare da un lato un potere più concreto al lavoro parlamentare e dall’altro per migliorare il lavoro governativo che non è sempre impeccabile, anche per lo scollamento tra apparati ministeriali tecnici e politici.

La manovra, regina delle leggi al tempo in cui chi esercitava il potere poteva elargire favori senza limite alle proprie clientele, è oggi un doloroso compromesso sul crinale tra le esigenze di spesa pubblica e di contenimento dei costi, quella che Giorgetti chiama “cautela”. Detto ciò, resta fondamentale e proprio per questo, una volta partorita dal Ministero dell’Economia e dal Consiglio dei ministri, i margini di modifica parlamentare devono essere limitati. Le polemiche di questi giorni esprimono sensibilità urtate non dalla prepotenza di Meloni e ministri ma da una realtà di cui bisognerebbe prendere atto. Altro che “bicameralismo perfetto”.

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