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L’Anticristo di Joseph Roth

Il Bloc Notes di Michele Magno

“L’Anticristo è venuto […]. E già abita in mezzo a noi, in noi stessi. E su di noi grava l’ombra pesante delle sue ignobili ali […]. Ma noi non ce ne accorgiamo!”. Così recita l’incipit del libro più visionario di Joseph Roth, L’Anticristo appunto, ristampato da Castelvecchi (prefazione di Claudio Magris, introduzione di Flavia Arzeni, traduzione di Cristina Guarnieri, 2024). È il 1934 quando l’autore annuncia all’amico Stefan Zweig di avere terminato la sua stesura. Nato nel 1894 a Brody, un piccolo centro della Galizia, ebreo di lingua tedesca, straordinario aedo della “Finis Austriae” con La Marcia di Radetzky (1932), nel 1933 lascia Berlino e si trasferisce a Parigi, mentre -con la nomina di Hitler a cancelliere- la Germania si apprestava a spalancare le porte alla dittatura, all’odio razziale e a quella celebrazione della forza che si concluderà tragicamente nella guerra e nella sconfitta. Muore alcolizzato nella capitale francese il 27 maggio 1939, dopo aver appreso con sgomento che il drammaturgo Ernst Toller si era suicidato a New York cinque giorni prima.

Una vita divisa tra giornalismo e letteratura, e tanti viaggi in Germania e Olanda, Polonia e Unione Sovietica, Albania e Italia. Quando il suo capolavoro vede la luce aveva alle spalle un patrimonio narrativo immenso: dieci romanzi e un numero sterminato di racconti, tutti scritti in qualche miserabile albergo o al tavolo di un caffè, quasi sempre senza un soldo in tasca e con un bicchiere davanti a sé. Della fine del mondo asburgico Roth parla senza fronzoli, con malinconia e humor; e descrive “il tramonto di un’epoca durata più di sei secoli non con il tono celebrativo del vate, ma con quello dimesso e popolare del cantastorie” [Arzeni]. Nella sua opera i richiami autobiografici sono evidenti: quelli ai servizi d’inchiesta realizzati per il quotidiano “Der Neue Tag”, alla guerra e all’esperienza di soldato dell’esercito austro-ungarico, ai molti luoghi visitati girovagando per  l’Europa, alla condizione di esiliato. Forse quest’ultima è l’elemento che più ispira L’Anticristo: la “Heimatlosigkeit”, ossia la perdita di ciò che è al tempo stesso la casa e la patria, e che invano egli cerca smarrito nelle oscurità del male. Un male in cui si riverbera la tragedia degli ebrei orientali, costretti dal crollo dell’impero asburgico a una nuova diaspora, spesso proprio in quei paesi che stavano approntando le forche dell’antisemitismo.

Il lettore viene quasi travolto da una marea di metafore apocalittiche, di allucinazioni profetiche evocate con una lingua alta e arcaica, quella originata dalla Bibbia luterana, che aveva già animato lo Zarathustra nietzschiano. L’irruenza oratoria e la verve teatrale di Roth disegnano quadri spettrali, che raggiungono la massima potenza espressiva nel capitolo “Il dio di ferro”. Roth fu tra i primi a intuire che la catastrofe della democrazia tedesca non era imputabile solo alla crisi economica, a sei milioni di disoccupati e a un’inflazione alle stelle. E nemmeno la crisi politica della Repubblica di Weimar, come il diffuso risentimento popolare per le dure clausole del Trattato di Versailles, bastavano a spiegare l’irresistibile ascesa di Hitler al potere, benvoluta dalla vecchia élite militare e industriale dello stato guglielmino.

Il rogo del 10 maggio 1933 a Berlino e in altre città, dove furono bruciati anche i suoi libri, per Roth confermava il carattere demoniaco del regime nazista, con la sua propaganda, le sue liturgie di massa, le sue cerimonie notturne. Una cultura esoterica coltivata fin dall’inizio degli anni Venti, nel clima imperante di frustrazione morale e di disorientamento politico del paese. Allora il mentore di Hitler era Rudolf von Sebottendorf, studioso della cabala, di testi alchemici e rosacrociani, delle pratiche occultistiche dei dervisci. È lui l’animatore della “Thule Gesellschaft”, una società mistica fondata nel 1910 che si ispirava agli scritti teosofici di Guido von List e Lanz von Liebenfels, un coacervo di religioni orientali, teosofia, antisemitismo, mistificazione runica e paganesimo nordico. Gli iscritti alla “Thule” (la mitica Atlantide) si riunivano ogni sabato nei saloni dell’elegante Hotel Vier Jahrunderszeiten di Monaco: oltre a quello del futuro Führer, spiccavano i nomi di Rudolf Hess, Karl Haushofer, Alfred Rosenberg, Hans Frank, ossia l’élite del nazionalsocialismo. È la stessa élite che più tardi innalzerà simboli atroci, uncinando la croce e creando un Dio di ferro per uomini che non pregano ma combattono.

Roth coglie acutamente il significato sacrilego e irreligioso della svastica, trafugata alla tradizione solare indiana: “Vidi un uomo davanti alla sua porta che portava sul copricapo, sulla fronte e sul braccio destro il segno della croce. Ma non era la solita croce, bensì una croce che era spezzata e piegata, a destra e a sinistra, all’estremità superiore e inferiore. Era come se l’uomo avesse intenzionalmente dapprima spezzato il santo segno della croce, e poi dimenticato come ricomporlo correttamente. Sembrava che anche la croce stessa soffrisse, dal momento che era così incurvata e flessa”.

Come ha scritto Marino Freschi (Doppiozero, 8 ottobre 2024), Roth è quel raffinato narratore che ha saputo scavare nelle pieghe più riposte del piccolo borghese mitteleuropeo, raffigurandone la modestia spirituale, l’ipocrisia sociale, l’altezzosa arroganza verso i subalterni, la sadica crudeltà verso i deboli e i diversi. Ed è proprio nella figura del piccolo borghese che Roth scopre le ombre dell’Anticristo, che sono quelle dei tanti mediocri capi nazisti catturati dai discorsi invasati di un “imbianchino” di Braunau e modesto caporale austriaco. Per Roth solo una possente presenza demoniaca poteva provocare un tale stravolgimento delle coscienze: “La nostra cecità è una cecità da cui si può essere colpiti solo per mano dell’Anticristo e di cui all’inizio abbiamo detto che ci è stata predestinata prima della fine dei tempi. È cecità infernale dacché, anche se siamo accecati, crediamo di vedere. Siamo in effetti più accecati che ciechi”.

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