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Il curioso destino di Berlusconi e Berlinguer

Enrico Berlinguer e Silvio Berlusconi insieme a loro insaputa. I Graffi di Damato

Curioso destino comune di Enrico Berlinguer e di Silvio Berlusconi, in ordine alfabetico dei loro cognomi, a distanza di 40 e di un anno, rispettivamente, dalla loro morte. Il primo, segretario del maggiore partito di opposizione ai suoi tempi, dopo la pausa della “solidarietà nazionale” con la Dc di Giulio Andreotti, Aldo Moro e Benigno Zaccagnini, anche loro in ordine rigorosamente alfabetico dei cognomi. E il secondo, fondatore non solo e non tanto di Forza Italia quanto, in fondo, della seconda Repubblica per avere allestito tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, all’esordio di una nuova legge elettorale non più proporzionale, una coalizione di centrodestra contrapposta alla “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, a sinistra. Fu l’avvio della stagione cosiddetta bipolare della politica italiana.

Bipolare, in verità, era stata anche l’Italia del 1948 con lo storico scontro elettorale fra la Dc e i suoi potenziali alleati di centro da una parte e la sinistra dall’altra costituitasi in un dichiarato, orgoglioso “fronte popolare”, che però perse la partita con tutta l’effigie e la barba di Giuseppe Garibaldi  nei volantini. Ma era tutt’altro bipolarismo, ideologico prima ancora che politico.

Le ideologie nel 1994 erano già finite sotto le macerie del muro di Berlino, nel 1989, anche se Berlusconi chiamava e liquidava come comunisti quelli che si erano affrettati a  cambiare nome al loro partito e deposto il simbolo della falce e martello ai piedi di una tranquilla quercia, conservando tuttavia la stessa classe dirigente. E così esponendosi alla polemica del Cavaliere.  Facendogli anzi il piacere di guidare nelle parole un rinnovato schieramento anticomunista rievocativo di quello degasperiano del già citato 1948.

A 40 anni dalla sua morte sul campo, colto tragicamente da un ictus nel comizio conclusivo anche allora di una campagna elettorale per l’elezione del Parlamento europeo, Enrico Berlinguer si gode forse dall’aldilà lo spettacolo di una giovane e giocosa -come la macchina da guerra di Occhetto- segretaria del Pd di nome Elly e cognome Schlein. Che è andata a rivendicare l’eredità berlingueriana, dopo averne riprodotto gli occhi sulle tessere di iscrizione al partito per questo 2024, nella piazza di Padova che costò la vita all’allora segretario del Pci.

Di “Enrico”, chiamato solo col nome, come per la Meloni oggi si fa chiamandola solo Giorgia secondo le sue stesse indicazioni o preferenze, si era d’altronde vantato come erede persino l’ex o post-democristiano Enrico Letta assumendo la guida del Pd  dopo le improvvise e traumatiche dimissioni di Nicola Zingaretti: lo scopritore, con Goffredo Bettini, del Giuseppe Conte “punto più avanzato del progressismo” in Italia.

A un anno solo, invece, dalla sua morte onorata con i funerali di Stato dovuti ad un ex presidente del Consiglio, e con la partecipazione non solo formale e dovuta del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il compianto Berlusconi si gode dall’aldilà non dico una folla, ma quasi, di eredi. Ne ha un po’ raccolto la consistenza elettorale -col quasi 29 per cento dei voti nelle europee di sabato e domenica scorsa, vicinissimo al 30 di Berlusconi nelle europee del 1994- la leader della destra e prima presidente del Consiglio donna nella storia d’Italia.

Ma di Berlusconi ha tutti i titoli politici, e anche umani, di considerarsi erede anche Antonio Tajani, scampato al rischio di essere solo il liquidatore del partito di cui il fondatore gli aveva assegnato in vita le funzioni di vice presidente. Ora Tajani si vanta, numeri alla mano, di essere al terzo posto della graduatoria generale dei partiti nazionali, dopo i fratelli d’Italia della Meloni e il Pd della Schlein, avendo scavalcato non solo la Lega di Matteo Salvini ma anche il MoVimento 5 Stelle di Giuseppe Conte.

Per quanto scavalcato, ripeto, e per niente chiuso nella “riflessione” autocritica impostasi da Conte col fiato -temo per lui- di Beppe Grillo sul collo, anche Salvini rivendica in qualche modo l’eredità di Berlusconi. Che non a caso è stato il nome da lui più evocato nella campagna elettorale dopo quello del generale Roberto Vannacci. Tanto evocato, Berlusconi, che il vecchio Umberto Bossi, il fondatore della Lega, ha voluto votarne il partito raggiungendo la sezione elettorale in carrozzella. E soprattutto ha voluto farlo sapere. Anche di questo avrà potuto ridere, soddisfatto, dall’aldilà Berlusconi.

E poi dicono che la politica è di una monotonia terribile, asfissiante, tanto da meritarsi come partito di maggioranza quello delle astensioni.

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