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Perché sarà una sciagura la Nato sbilanciata a Nord

L'analisi Giorgio Cuzzelli, Generale di Brigata degli Alpini in congedo, insegna Sicurezza Internazionale all’Orientale di Napoli, tratta da Domani

È un fatto che le sciagurate iniziative di Mosca in Europa orientale hanno spostato a nord il baricentro dell’Alleanza atlantica. Ne fanno fede un nuovo Concetto strategico sostanzialmente russocentrico, un netto rafforzamento del dispositivo centrosettentrionale e, infine, l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato.

A parere di molti, tuttavia, questo atteggiamento potrebbe condurre Bruxelles a trascurare sfide altrettanto esistenziali provenienti dal Levante. Ciò al netto degli sforzi delle diplomazie euromediterranee, prima di tutto quella italiana, che nel quadro del documento fondante dell’Alleanza per il prossimo decennio, sono riuscite a spuntare un paragrafo su 49 per accennare anche ai rischi provenienti da sud.

Questo apparente strabismo atlantico non è cosa nuova. Affonda le sue radici in un complesso di motivi, alcuni validi, altri meno. In primis nella ragion d’essere dell’Alleanza e, in seconda battuta, negli interessi di taluni stati membri, non escluso un certo pregiudizio identitario. Non per questo, tuttavia, può essere giustificato o, peggio, accettato senza discutere.

ALLA RICERCA DI UN BARICENTRO

La Nato è nata nel 1949 per proteggere l’Europa occidentale dalla minaccia di un’invasione sovietica. Cioè di un attacco da oriente. Attacco che si sarebbe manifestato dove il terreno era più favorevole alla manovra delle forze, ovvero in corrispondenza del grande corridoio nordeuropeo che va dalle coste del Baltico all’Atlantico. Il cosiddetto scacchiere centrale, spalle al Reno.

In tale contesto erano fondamentali due aspetti. Da un lato resistere sul posto quel tanto che sarebbe bastato a garantire l’afflusso dei rinforzi americani d’oltreoceano, senza i quali non si sarebbe potuto fermare l’avversario. Dall’altro, impedire ai sovietici di bloccare tale afflusso, proteggendo le rotte dell’Atlantico. In uno scenario del genere il fianco meridionale dell’Alleanza era del tutto secondario. Il terreno non consentiva la manovra, in ragione delle montagne, e il Mediterraneo era un mare chiuso.

Dunque lo sforzo principale sovietico sarebbe stato altrove e la battaglia – quella vera – sarebbe avvenuta in nord Europa e nell’Atlantico settentrionale. E il Grande nord? Essenziale per evitare l’aggiramento del fronte centrale e l’accesso dei sovietici all’Atlantico, nello spazio compreso tra il Baltico e l’Artico, tra la Groenlandia e l’Islanda.

Con la scomparsa dell’Unione sovietica, ovviamente, queste ipotesi sono venute meno. In aggiunta, a partire dagli anni Novanta la Nato si è dedicata sempre meno alla difesa collettiva e sempre di più alla proiezione di stabilità sulla massa continentale eurasiatica e alla cooperazione per la sicurezza nella direzione del Mediterraneo e del Levante. Al punto che ha eliminato i suoi comandi dedicati all’Atlantico. Nel contempo, tuttavia, ha aperto la porta a nuovi stati membri, gli ex del patto di Varsavia.

Ostili alla Russia, atlantisti duri e puri, i nuovi membri vedevano nell’ombrello nucleare americano la migliore garanzia per il proprio futuro, e nell’attenzione a est il naturale baricentro del Trattato. In ciò sostenuti da potenti diaspore presenti sul territorio statunitense, e da una certa insofferenza da parte di Washington nei confronti degli alleati occidentali.

Insofferenza che nasceva da due ordini di motivi. In primo luogo da polemiche mai sopite per l’ineguale distribuzione degli oneri tra le due sponde dell’Atlantico. In seconda battuta, dalla presunta ambivalenza degli europei occidentali nei confronti della Russia. Occidentali che, invece, da un lato premevano per mantenere aperto il dialogo con Mosca, e dall’altro sollecitavano attenzione per il fianco meridionale dell’Alleanza, esposto a crescente pressione derivante dall’instabilità della regione nordafricana e mediorientale.

Si è venuta così a creare in ambito Nato una sorta di diarchia tra membri vecchi e nuovi, che ha portato a valutazioni non sempre coincidenti circa il baricentro degli interessi dell’Alleanza e le priorità da adottare al riguardo.

Se l’attacco alle Torri gemelle e il successivo impegno nella guerra globale contro il terrorismo hanno inizialmente spostato l’attenzione degli Stati Uniti lontano dall’Europa, costringendo gli stati del continente al ruolo di comprimari in un grande disegno di stabilizzazione solo in parte condiviso, la ritrovata assertività della Russia accompagnata dalle iniziative cinesi ha riacceso di seguito l’attenzione di Washington ed è sembrata avvalorare i timori dei nuovi membri, riportando l’accento sulla difesa collettiva. Atteggiamento peraltro incoraggiato dal progressivo disimpegno per stanchezza dalle operazioni di stabilizzazione fuori area, rivelatesi nel tempo politicamente complesse, di scarsa efficacia complessiva e contemporaneamente assai dispendiose.

PERCHÉ IL SUD NON VA IGNORATO

Al quadro geostrategico così delineato si è aggiunto nel tempo un fenomeno naturale ormai ben noto, ovvero la riduzione dell’estensione della calotta artica dovuta al riscaldamento globale. Tale fenomeno appare oggi suscettibile di cambiare radicalmente il modo di comunicare via mare tra emisfero occidentale e orientale del globo.

In buona sostanza, la rotta artica consente di andare dalla Cina all’Europa e agli Stati Uniti costeggiando la Russia settentrionale senza passare per l’oceano Indiano, evitando Suez o il periplo dell’Africa. E, dal momento che tale rotta è per la maggior parte sotto controllo di Mosca, e giunge nelle Americhe da nord saltando a piedi pari l’Atlantico, le implicazioni strategiche sono evidenti.

Non è un caso, quindi, che anche gli equilibri dell’Artico siano entrati in gioco e che, di fronte alla prospettiva di un aggiramento, Svezia e Finlandia siano entrate a pieno titolo nella compagine atlantica. Spostando ancora di più il baricentro verso nord.

Nondimeno, la sfida valoriale in atto con Mosca e – in prospettiva – con Pechino, non deve indurre a dimenticare il resto del mondo e ciò che in esso succede. Il rischio che si corre è infatti quello di volgere lo sguardo a est e a nord, e dimenticare ciò che si agita a sud e e nel Levante. Senza nulla togliere all’immanenza della sfida russa dall’Artico al mar Nero, infatti, attraverso il Mediterraneo arrivano sfide altrettanto esistenziali per l’occidente, per la Nato, e per i paesi che insistono sul fianco meridionale dell’Alleanza.Da un lato, il terrorismo transnazionale di matrice islamica e gli attori non statuali che lo hanno sinora praticato sono lungi dall’essere sconfitti. Ciò non solo perché militarmente non sono scomparsi, ma perché la sfida valoriale che essi rappresentano non è venuta meno.

In buona sostanza, guardando al medio oriente, a fronte del sostanziale fallimento di società post-coloniali ispirate a valori europei, il richiamo a un ordine islamico delle origini mantiene intatta tutta la sua attrattiva. In parallelo, pericolosi attori statuali – o le milizie non statuali da essi ispirate – conducono quotidianamente la loro sfida all’ordine internazionale e governano popoli e territori, creando le premesse di ulteriori rivolgimenti politico-sociali.

In seconda battuta, e con riferimento all’Africa, l’adozione di processi di sviluppo disarmonici o non sostenibili, e l’assenza di una governance inclusiva, determinano continue crisi e flussi migratori verso il settentrione.

Da ultimo, è necessario contrastare l’assertività delle cosiddette potenze revisioniste dell’ordine internazionale – Russia e Cina in primis – che si sono inserite nel vuoto di potere lasciato dal disimpegno occidentale sia in Africa sia in medio oriente, e vi conducono una spregiudicata politica di potenza tesa ad affermare i propri valori e le proprie priorità strategiche in assoluta antitesi agli interessi occidentali.

In buona sostanza, al netto del rafforzamento della difesa collettiva di fronte alla palese minaccia russa, la Nato non può permettersi il lusso di ignorare ciò che succede altrove, e segnatamente in area mediterranea. Anche se l’Alleanza non è in grado da sola di fare nation building – l’Afghanistan l’ha dimostrato – deve comunque agire in cooperazione con altri, in primis l’Unione europea, per affrontare sfide che sono politiche prima ancora che militari. Anche se il cuore batte altrove, dunque, ignorarle potrebbe essere molto pericoloso.

 

Estratto di un’analisi pubblicata su editorialedomani.it

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