Questa campagna elettorale è la prima della storia dell’Italia repubblicana centrata in prevalenza sulla riduzione delle tasse. Non c’è leader di partito che non prometta una specifica o più generale riduzione della pressione fiscale, a prescindere dalla coerenza delle rispettive posizioni. Ad esempio, che relazione intercorre tra dichiarare che sono stati incassati 20 mld di euro dalla lotta alle evasioni fiscali – un dato che equivale a un aumento della pressione fiscale per giunta accompagnato da dichiarazioni di un aumento del gettito complessivo che va al di là di questa cifra – e affermare che le tasse sono diminuite e in futuro ancora lo saranno? La necessità lungamente evidenziata dagli economisti di ridurre la pressione fiscale si è 
ITALIA: PRESSIONE FISCALE PARI A DOPPIO E DEBITO QUINTUPLICATO
Ciascuna componente della società civile non chiede una riduzione della pressione fiscale per tutti, ma per se stessa; né chiede coerentemente una pari riduzione delle spese, ma di mantenerle, se non proprio di aumentarle per uno dei tanti motivi sociali, e procedere invece a una redistribuzione del carico fiscale, alleggerendo il proprio. La spinta alla redistribuzione del reddito è parte dominante della cultura politica dei cittadini italiani alimentata dalla motivazione etica dell’esistenza di un diritto ad avere condizioni di vita più eque da soddisfare tassando i più ricchi e lottando contro la l’evasione fiscale e la corruzione. Dopo cinquant’anni di attività redistributiva del reddito, l’Italia si ritrova con una pressione fiscale pari al doppio e un debito pubblico quintuplicato, senza che la distribuzione del reddito sia migliorata, anzi con prospettive di un suo peggioramento che va oltre gli effetti della recente crisi internazionale depressiva del PIL e dell’occupazione. Se il cittadino comune non è in condizione di pensare ai grandi problemi, dovrebbero farlo le organizzazioni rappresentative dei loro interessi (Governo e sindacati); esse hanno innanzitutto il dovere di dare una spiegazione del perché ciò sia accaduto, ancor prima di inseguire un’impossibile correzione della distribuzione del reddito promettendo questa o quella provvidenza nella speranza di trarne un vantaggio politico. Le motivazioni del fallimento delle politiche redistributive è nel non aver preso atto che esse richiedono non solo l’espressione di una volontà democratica di garantire più eque condizioni di vita per tutti e uno Stato che faccia rispettare queste decisioni, ma anche un buon funzionamento del mercato; invece a questo si attribuisce la responsabilità di una perversa distribuzione del reddito, non di rado spostando l’attenzione sulla globalizzazione che tanto eccita la fantasia di illustri economisti.
SOLO CONCORRENZA GARANTISCE EQUA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO
Se non si comprende che solo un mercato aperto alla concorrenza in tutti i settori garantisce una più equa distribuzione del reddito e si agisce di conseguenza per ottenerla in forme adatte, non si riuscirà mai a pervenire a una diversa condizione. Si deve partire dalla ricomposizione dell’economia tra settori esposti alla concorrenza interna ed estera e quelli non esposti; gli operatori dei primi, contrariamente a quelli dei secondi, non sono in condizione di fissare i prezzi dei propri prodotti o servizi, perché è la concorrenza a stabilirlo.
Ciò significa che gli aumenti di costo – nella sequenza storica del nostro Paese dei salari, dell’energia e fiscali – possono essere trasferiti sui prezzi dai settori non esposti alla concorrenza, che in Italia sono una larga maggioranza, mentre incidono sui margini operativi lordi degli altri settori che non hanno questo potere. A queste condizioni, non si potrà mai attuare con successo non solo una politica distributiva, ma anche una politica economica volta alla crescita del PIL e dell’occupazione.
NON BASTA RIDUZIONE DELLE TASSE







