La Marina Militare definisce il cyberspazio un bene comune. Anche i Big Data lo sono?
La tecnologia offre nuove opportunità, di sviluppo e di lavoro, ma presenta anche nuove ed importanti questioni da risolvere. Il solo essere connessi ci espone a rischi importanti. Il cyberspazio è luogo dove hacker e aziende possono colpire e affondarci, rubando i nostri dati, tenendoli in ostaggio per poi svelarli al momento che ritengono più opportuno (poco prima delle elezioni, in caso dei politici) o addirittura rivendendoli, poggiando su di essi il proprio business.
A volte, dobbiamo ammettere, non si tratta di furto. Siamo noi stessi a dare il consenso o son le circostanze che permettono alle aziende di accumulare informazioni sulle nostre abitudini. Approfondiamo insieme.
Cos’è il cyberspazio

L’avanzata tecnologia ha portato la parola ad esser sempre più utilizzata, come sinonimo di internet. Ancora oggi, però, non è stata definita una geografia del cyberspazio, inteso come spazio a se stante, anche a causa della vastità del campo da esplorare (che continuamente si amplia e si modifica), sia per l’inadeguatezza degli strumenti tradizionalmente utilizzati per la descrizione degli spazi fisici.
Le nuove tecnologia, infatti, modificano continuamente le caratteristiche del cyberspazio e la sua stessa definizione. Certo è che questo è un luogo dove trovare nuove informazioni e nuovi dati, offrendo una piazza virtuale dove le relazioni umane e la circolazione delle idee possono operare su basi nuove, effettuando, grazie all’elevatissimo numero di persone raggiungibili, un salto di scala rispetto ai metodi di comunicazione precedentemente disponibili. Ed è infatti in questo spazio virtuale che prendono forma
nuove comunità, nuove opportunità e nuove istanze globali.
Marina Militare: il cyberspazio è un bene comune
Il cyberspazio è un bene comune. Questo, almeno, è quanto stato deciso dal Chiefs of European Navies (Chens) tenutosi nei giorni 11 e 12 maggio, presso la città di Amburgo. L’evento, a cui ha partecipato anche il Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio di squadra Valter Girardelli, riunisce i capi di 26 marine europee, membri della NATO e/o dell’UE (Albania – Belgio – Bulgaria – Croazia – Cipro – Danimarca – Estonia – Finlandia – Francia – Germania – Grecia – Italia – Irlanda – Lettonia – Lituania -Malta – Olanda – Norvegia – Polonia – Portogallo – Romania – Slovenia – Spagna – Svezia – Turchia -Regno Unito).

Non solo. Cosa molto più importante è la definizione di “bene comune” assegnata alla dimensione cibernetica, data la pervasività del dominio informativo e delle interconnessioni tra individui e cose, sia sui processi decisionali e economico-produttivi, sia sulla costruzione socio-culturale delle società dei Paesi più avanzati.
La questione dei Big Data: di chi sono le informazioni che vengono raccolte?
Essere connessi, però, non genera solo nuovi spazi, ma anche nuovi e importanti informazioni sulle nostre abitudini. E se talvolta sono i criminali del web a rubarli (si guardi al maxi attacco hacker che ha colpito 90 Paesi e mandato in tilt i computer del Servizio Sanitario britannico, delle Università Italiane e delle azienda di telecomunicazione Telefonica, tra gli altri e che per rilasciare i dati chiedeva un riscatto in bitcoin), altre volte a detenere (legalmente) il tesoro dei nostri dati sono le aziende. E proprio su queste fondano il loro business e i loro piani marketing.

E così, Facebook, Google, Amazon e Uber, ma anche aziende di energia o di telefonia, che ci offrono servizi (a volte gratuiti) vengono in possesso dei nostri dati collettivi. Questi diventano proprietà dell’azienda.
Attenzione, non si tratta di una cosa di poco conto. Il possesso dei dati, è così importante che grazie a questi l’industria tecnologica riesce a controllare persino il nostro pensiero e la nostra immaginazione, spingerci a fare degli acquisti.
L’alternativa potrebbe esserci, ma richiederebbe un intervento dei singolo governi. Potrebbero essere delle infrastrutture digitali di proprietà dello Stato a raccogliere e conservare i dati che ora sono nelle mani delle aziende. Ma, sarebbe un’alternativa valida?






