Un intervento realistico e a costo zero per ridurre il debito pubblico sarebbe l’utilizzo in toto o parte dei circa 200 miliardi di dollari (valutazione variabile a seconda delle stime dei corsi dell’oro) di riserve «in eccedenza» (valutati in circa il 5% del Pil comunitario) delle Banche centrali europee in conseguenza della creazione dell’euro.
Infatti, con l’introduzione dell’euro i Paesi partecipanti all’UEM non devono più stabilizzare i cambi tra le loro monete, di conseguenza la domanda di riserve è drasticamente diminuita.
A tal proposito la Banca d’Italia è il quarto detentore di riserve auree al mondo, dopo la Federal Reserve statunitense, la Bundesbank tedesca e il Fondo monetario internazionale. Il quantitativo totale di oro di proprietà della Banca d’Italia è pari a 2.452 tonnellate (metriche), costituito prevalentemente da lingotti (95.493) e per una parte minore da monete.
Tale quantitativo d’oro non è custodito interamente presso la sede di Via Nazionale della Banca d’Italia in quanto solo una parte è depositato presso le sacrestie di Palazzo Koch, dove è detenuta circa la metà della riserva per un peso di 1.199,4 tonnellate. Il restante è depositato per la maggior parte presso la Federal Reserve, ma anche presso la Banca d’Inghilterra e la Banca Centrale Svizzera. La motivazione sottostante a tale suddivisione (operata peraltro da tutte le Banche Centrali Nazionali) è di mera “suddivisione del rischio” in caso di instabilità politica.
Inoltre, la Banca d’Italia ha depositato presso la BCE 100 tonnellate d’oro (per un valore alle quotazioni attuali di circa 3,5 miliardi di euro) in virtù dell’appartenenza al sistema delle Banche Centrali. Esso è solo un deposito contabile dato che gli 8.000 lingotti di “proprietà BCE” sono fisicamente rimasti nei locali del nostro Istituto. Infine, occorre sottolineare che l’oro è di proprietà della Banca d’Italia e non dello Stato italiano e tantomeno dei partecipanti privati al capitale (Banche nazionali), che sulle riserve non possono vantare alcun diritto. Quindi, in una eventuale decisione politica che andasse nella direzione di vendere parte delle riserve auree occorrerebbe giuridicamente, con una legge ordinaria, provvedere a cambiarne l’assetto proprietario.
Da un punto di vista strettamente economico, secondo le regole contabili adottate a livello di Eurosistema, l’oro è valutato ai prezzi di mercato di fine esercizio. Quindi il suo valore varia al variare delle quotazioni dell’oro negli anni: ad esempio, al 5 febbraio 2018, con il prezzo dell’oro al grammo pari a 34,53 euro (1336,65 dollari all’oncia), il controvalore del quantitativo di oro di proprietà dell’Istituto a questa quotazione è pari a circa 85 miliardi di euro. Se facessimo lo stesso calcolo alle quotazioni del 18 agosto 2012 (43,51 euro al grammo), quotazione la più elevata degli ultimi 20 anni, avremmo un valore delle riserve di circa 107 miliardi di euro.
Da una nostra analisi, si è calcolato che se destinassimo all’obiettivo di ridurre il debito pubblico italiano “solo” 50 miliardi di euro (la cifra potrebbe essere anche superiore) delle totali riserve auree potremmo avere un risparmio cumulato in termini di interessi pagati sul debito in 10 anni pari a circa 30-60 miliardi di euro. Infatti l’utilizzo delle riserve auree secondo i nostri calcoli, tenendo conto dell’aumento dei tassi di interesse nei prossimi anni, consentirebbe di risparmiare mediamente dai circa 3 miliardi l’anno sul servizio del debito (ipotesi prudenziale) ai circa 6 miliardi di euro (ipotesi massima). Un risparmio che sarebbe pari più o meno (a seconda delle ipotesi) a quanto vale l’introduzione dell’ IMU sulla prima casa (circa 4,5 miliardi di euro annui).
In 10 anni, quindi, si potrebbe ridurre il debito pubblico “potenziale” per un totale di almeno 100 miliardi di euro (ossia una riduzione del debito totale al suo valore attuale di circa il 4,5%). Un valore composto dall’iniziale vendita delle riserve auree che direttamente ridurrebbero parte del debito e la quota di interessi risparmiati relativi al servizio del debito che altrimenti andrebbero ad implementare per quota parte il debito pubblico. Una riduzione che non graverebbe sui cittadini italiani ne in termini di aumento della pressione fiscale ne di una riduzione della spesa pubblica.
Ovviamente la variabilità del valore del risparmio contabilizzato è condizionata dalle ipotesi iniziali fatte per il calcolo: l’ammontare delle riserve auree utilizzate (impiego parziale o totale), la variabilità della quotazione dell’oro al momento della vendita e l’andamento pluriennale dei tassi di interesse.
In conclusione, la riduzione del debito pubblico è un intervento necessario anche in prospettiva della fine del QE che inevitabilmente porterà ad un aumento dei tassi di interesse e quindi del servizio sul debito a livello pre-crisi. Ciò significherà che se nel 2017 esso è costato al contribuente italiano “soli” 66 miliardi (dal 2012 grazie agli interventi della BCE il risparmio cumulato è stato di circa 17 miliardi di euro) si tornerebbe agli 80-85 miliardi di euro annui (con progressione in aumento) dello scorso decennio.
L’alienazione di una quota delle riserve auree attualmente possedute in maniera infruttifera e per alcuni versi ingiustificata dalla Banca d’Italia potrebbe in parte risolvere a costo zero per il contribuente italiano il problema del debito pubblico e relativi costi dovuti al pagamento degli interessi.
Di tutto ciò non vi è traccia nei programmi economici di nessun partito.
Giuseppe Capuano, economista