Il Documento di Economia e Finanza che il Tesoro dovrà obbligatoriamente presentare alle Camere entro il prossimo 10 aprile sta diventando un terreno di scontro tra le varie componenti politiche, per avere in palio il controllo del prossimo esecutivo. Innanzitutto, dopo aver letto quanto scritto da alcuni importanti quotidiani nazionali circa le procedure che regolano la presentazione del principale documento di programmazione economica al Parlamento, è doverosa una chiosa. Il Def, che contenga o no il quadro programmatico di finanza pubblica, va in ogni caso approvato dalle due Camere, come espressamente previsto dalla Legge di contabilità dello Stato. Errata è, quindi, l’ipotesi sostenuta da qualcuno, secondo la quale il documento può saltare il passaggio parlamentare per il solo fatto che il ministro dell’Economia si limiterà a presentare un quadro a politiche invariate, senza quantificare in alcun modo gli effetti delle politiche economiche proposte da un Governo non ancora in carica.
Detto questo, mi pare utile rilevare la seguente questione, che è poi il vero nocciolo del problema e che la stampa economica nazionale non sembra aver percepito appieno nelle sue sottili sfumature. I giornali hanno riportato come la Commissione Europea abbia concesso al Tesoro di poter presentare un DEF mancante del suo quadro programmatico, che si limiti esclusivamente a quantificare il quadro macroeconomico e quello di finanza pubblica a legislazione vigente. Il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, di ritorno dal suo ultimo vertice economico a Bruxelles, ha sposato pienamente questa richiesta, e lo ha fatto mostrando un atteggiamento molto crudo nei confronti degli schieramenti politici che gli chiedevano semplicemente di interloquire con lui, per poter verificare se ci fosse qualche possibilità di gettare le basi per quel quadro programmatico che il futuro Esecutivo sarà tenuto a scrivere in ogni caso. La risposta del ministro è stata netta, suonata come una sorta di “giù le mani dal Def”. Nessuna ingerenza da parte dei partiti, neppure da parte di quelli potenzialmente candidati al governo del Paese. Una posizione apparsa sin da subito eccessiva, soprattutto perché proviene da un ministro ormai zoppo, ancora in carica ma per il solo disbrigo degli affari correnti, tra i quali non dovrebbe figurare il compito di andare in Europa a negoziare con gli alti funzionari il da farsi.
Il vero nodo del contendere che si nasconde dietro a tutto questo interesse verso il quadro tendenziale del Def è l’aumento delle aliquote IVA, che scatterebbero dal prossimo 1° gennaio nel caso non fossero individuate risorse sufficienti per evitare l’aumento. Dove devono essere indicate queste risorse? Esattamente nel quadro programmatico del Def. Che però, per l’appunto, non sarà presentato. Come uscire da questa empasse? Il ministro Padoan, su suggerimento esplicito della Commissione Europea, sta di fatto chiedendo ad un Parlamento che non rappresenta più la vecchia maggioranza che lo sosteneva, di votare un quadro tendenziale contenente l’aumento delle aliquote IVA. Una forzatura, considerando che tale quadro rimarrebbe l’unica base disponibile sulla quale impostare la futura Legge di bilancio, giacché nessun Esecutivo sarà in grado di scrivere il nuovo quadro programmatico in tempo utile per poterlo inviare a Bruxelles entro la fine di Aprile, come previsto dalle regole europee sui bilanci degli Stati membri. E come si può pensare che questo Esecutivo possa trovare i 30 miliardi necessari per smantellare le clausole di salvaguardia in così poco tempo? Dovrebbe andare a negoziare il loro taglio di nuovo con la Commissione, ma solo dopo l’estate e, a quel punto, sarà troppo tardi.
La verità è che la Commissione Europea vuole quest’aumento dell’IVA. Lo ha scritto a chiare lettere più volte, nelle osservazioni inviate in passato all’Italia, auspicando apertamente che il nostro Governo adottasse misure per traslare il carico fiscale dalla tassazione diretta a quella indiretta, della quale l’IVA fa parte. Diciamolo in parole ancora più nette: il far diventare il quadro tendenziale del DEF la vera manovra italiana per il 2019 alla Commissione va benissimo. Anche il ministro Padoan, almeno osservando le sue mosse, sembra essere pienamente d’accordo con la volontà di Bruxelles.
La cosa non stupisce più di tanto, considerando che nel corso del suo ministero non ha mai dato prova di voler sfidare apertamente i funzionari di Bruxelles. Non lo farà neanche questa volta.
Quali mosse potrebbero allora compiere il centrodestra e il Movimento 5 Stelle per evitare l’aumento dell’IVA, che secondo le associazioni di consumatori potrebbe arrivare a costare quasi mille euro in più all’anno ad ogni famiglia italiana? Esclusa la non approvazione del DEF, che metterebbe l’Italia con le spalle al muro davanti all’Europa e ai mercati finanziari, l’unica alternativa possibile sembra quella di trovare una maggioranza – in questo momento ancora non individuata – che possa approvare il quadro tendenziale del DEF con allegate delle risoluzioni vincolanti che impegnino il futuro Governo a trovare, a tutti i costi, le risorse sufficienti per eliminare le clausole di salvaguardia sull’IVA, tramite una pervasiva operazione di taglio della spesa pubblica, un efficace piano di privatizzazioni e di alienazione del patrimonio pubblico, non escludendo come estrema ratio la possibilità di negoziare con la Commissione un rientro più graduale del deficit verso l’obiettivo di medio termine, rappresentato dal pareggio di bilancio, previsto attualmente per il 2020. Per poter far questo, però, occorrerebbe al più presto formare un governo dotato di pieni poteri cosa che, data l’intricata situazione politica che si è venuta a delineare, non è affatto scontata.
Emanuele Canegrati
Liechtenstein Academy Foundation e membro del Comitato Scientifico, Fondazione Magna Carta