La scorsa settimana il capo dell’Fbi, Christopher Wray, era seduto in audizione davanti alla Commissione intelligence del Senato; a fianco a lui il Director della National Intelligence, Dan Coats. Entrambi, alle domande dei senatori sulla Cina, hanno risposto molto chiaramente: Pechino sta cercando di prendere il posto degli Stati Uniti come potenza globale dominante.
Non è certamente un segreto, ma che lo dicano – attenzione: in un’audizione a porte aperte – il capo dell’agenzia americana che si occupa di controspionaggio e il direttore dell’organismo che coordina tutte le branche dei servizi segreti statunitensi, è una notizia. Tanto più che davanti ai due top leader della Intelligence Community c’erano una serie di senatori che probabilmente – e in maniera bipartisan – non aspettavano altro che sentirsi dire certe parole (per esempio, il senatore della Florida Marco Rubio, un repubblicano molto quotato all’interno del partito, ha servito una delle risposte centrali a Coats su un piatto d’argento, chiedendo se la Cina sta lavorando per superare gli Stati Uniti come potenza mondiale; il Director ha detto: “Non c’è dubbio”).
Che Washington abbia sopravvalutato la sua capacità di plasmare la Cina a piacimento, invogliandola con l’odore dell’economia di mercato, è una visione che sta via via diventato sempre più solida a Capitol Hill (per esempio, in questi giorni è uscito un saggio che potremmo definire programmatico a proposito). Ora inizia la fase due, il contenimento, il confronto, con i termini che si riservano a una “rival power”, una potenza rivale come viene indicata al Cina nel documento strategico sul futuro dell’amministrazione americana. La denuncia pubblica dell’IC è da inserire come un tassello in questo puzzle di confronto.
Wray, per esempio, ha detto chiaramente che Pechino per indebolire il potere militare, economico, culturale e informativo degli Stati Uniti in tutto il mondo, sta usando “metodi” (intendendo attività clandestine, operazioni) che contano più delle sue istituzioni statali; dobbiamo vedere la minaccia cinese non come una questione con cui si deve confrontare il governo, ma tutta la società americana (o mondiale), ha detto il direttore dell’Fbi, sostenendo che gli ambiti della società americana presi di mira dalla Cina sono molteplici, e per questo non basta il lavoro della agenzie, ma serve consapevolezza e porre massima attenzione alle attività di soft power.
Secondo Wray una delle forze più rilevanti su cui la Cina può contare è l’ampia articolazione delle sue attività di intelligence, sia quella fisica, sia quella cyber, grande terreno del confronto che segnerò le relazioni tra i due paesi in futuro. Ci sono “collectors” (è un termine tecnico con cui le intelligence chiamano coloro che raccolgono informazioni per le agenzie, ma non ne sono formalmente parte), denuncia Wray, che stanno sfruttando per esempio l’apertura nei settori di ricerca americani, dai laboratori accademici universitari ai centri di sviluppo, per rubare informazioni.
Il clima sembra da Guerra Fredda, al limite da caccia alle streghe, ma che il mondo accademico americano sia contaminato da certe “infiltrazioni”, come le chiama Wray, è questione nota (e non arrivano solo dalla Cina, sebbene probabilmente le cinesi sono le più corpose); Time scrive che l’Institute of International Education ha rivelato che nel biennio accademico 2015-2016 il numero di studenti stranieri ammessi nei college americani è cresciuto del 7,1 per cento, toccando quota un milione, di cui oltre 300mila sono cinesi.
Ovviamente questo genere di contaminazioni sono positive, permettono il flusso della conoscenza, sono il cuore dello sviluppo, si precisa, ma tra gli accademici c’è stata una “ingenuità” sui rischi posti da cittadini stranieri presso università statunitensi, ha detto il direttore, e ora “stanno sfruttando il nostro ambiente di ricerca e sviluppo particolarmente aperto, che tutti veneriamo” per attaccarci.
Allusioni, da parte del senatore Rubio, sono andate verso gli Istituti Confucio, realtà che come tante altre promuovono un paese, nel caso la Cina ovviamente, attraverso la diplomazia culturale, ma che a differenza di altre sono inserite all’interno delle università locali (ce ne sono diversi anche in Italia).
Anche di questi istituti si parla da tempo: lo scorso anno Foreign Policy pubblicò un’inchiesta a riguardo, sostenendo che tra gli obiettivi (più subdoli e non dichiarati) hanno la diffusione della propaganda cinese; FP li chiamava “Trojan”, come l’epico cavallo e come i malware che si infiltrano nei computer, ne copiano i dati e ne prendono il controllo (all’Università di Chicago e alla Pennsylvania State sono stati chiusi).