Dirigenti di primissimo piano delle Big Tech americane – tra cui il CTO di Meta, il CTO di Palantir, un ex di OpenAI – sono appena stati arruolati come ufficiali riservisti nell’Esercito degli Stati Uniti. Lo riporta il Wall Street Journal, lo conferma il Dipartimento della Difesa, ma sembra ancora fantascienza.
Invece è realtà. Si chiama Detachment 201 ed è un programma sperimentale che consente a figure chiave del mondo tech di entrare nel sistema militare americano saltando completamente l’addestramento tradizionale. Vengono nominati direttamente con il grado di tenente colonnello e impegnati per 120 ore l’anno, con funzioni di “consulenza strategica” su temi come intelligenza artificiale, cybersicurezza, automazione e trasformazione digitale.
Ma cosa significa tutto questo? E perché solleva così tante preoccupazioni?
Un matrimonio pericoloso
Coinvolgere la Silicon Valley nella modernizzazione dell’esercito non è una novità. Da anni il Pentagono cerca di recuperare terreno tecnologico nei confronti di Cina e Russia. Tuttavia, la novità è che le aziende private non stanno più solo vendendo tecnologie al Dipartimento della Difesa: ora stanno mettendo i propri uomini direttamente dentro le strutture decisionali dell’esercito.
Meta, OpenAI e Palantir non sono semplici fornitori. Sono detentori e sviluppatori di tecnologie di sorveglianza, gestione dei dati, profilazione comportamentale e intelligenze artificiali avanzate, spesso impiegate (o potenzialmente impiegabili) anche in ambito bellico o di controllo sociale. Se i dirigenti di queste aziende diventano ufficiali militari, chi garantisce la distinzione tra potere pubblico e interesse privato?
Oltre il conflitto d’interessi
Il nodo più critico è proprio questo: chi tutela il confine tra innovazione e conflitto d’interessi?
I dirigenti coinvolti restano attivi nelle loro aziende. Questo significa che:
- possono influenzare le scelte strategiche del Pentagono sulle tecnologie da adottare;
- possono accedere a dati sensibili o progetti riservati;
- possono indirizzare appalti, standard e normative verso soluzioni compatibili con i loro prodotti e interessi aziendali.
Una dinamica che ricorda da vicino il modello “revolving door” tra politica e finanza, ma questa volta potenziato da una dimensione militare e tecnologica.
Il problema democratico
Tutto questo avviene senza reale trasparenza né controllo democratico. Il Congresso americano non ha avuto un ruolo diretto nel disegnare il programma. Non ci sono meccanismi pubblici di accountability. E non è chiaro quali limiti saranno imposti a questi ufficiali “civili” nell’uso di strumenti, dati o relazioni.
In un’epoca in cui la distinzione tra cyberwarfare, intelligenza artificiale e governance civile si fa sempre più sottile, questa iniziativa rischia di creare una nuova forma di potere ibrido: un complesso tecno-militare senza bilanciamento istituzionale.
Una brutta sensazione
Se tutto ciò nasce con l’intento di colmare il ritardo tecnologico delle forze armate occidentali, è legittimo chiedersi: a quale prezzo?
Mettere i vertici delle Big Tech dentro l’esercito, anche part-time, significa anche dare loro una posizione di influenza strategica che nessun C-level executive, per quanto brillante, dovrebbe avere senza passare da un vaglio democratico.
Per questo, al di là dei proclami sulla “trasformazione digitale della difesa”, resta una brutta sensazione. Quella che la sicurezza stia diventando un affare privato, e che la democrazia rischi di pagarne il prezzo.