I trasporti pubblici in Italia sono caratterizzati da costi particolarmente alti per le casse pubbliche, in quanto le tariffe che pagano gli utenti sono basse rispetto a quelle del resto d’Europa, mentre i costi per produrre i servizi sono piuttosto elevati (solo la Germania ci supera).
SUSSIDI STATALI AL TRAPORTO URBANO
Questo vale sia per i servizi ferroviari locali, sia per i trasporti urbani. I sussidi al settore costano allo Stato cifre dell’ordine dei 7,5 miliardi all’anno, divisi tra 2,5 alle ferrovie e 5 ai servizi locali non ferroviari.
Per dare un’idea: le imprese locali di trasporto di Roma e di Milano hanno sussidi superiori al milione di euro al giorno, e in media i ricavi da tariffa sono inferiori al 40 per cento dei costi, mentre il restante 60 per cento è a carico dei contribuenti. Queste cifre sono relativamente stabili nel tempo.
Il settore è poi quasi interamente in mano pubblica (con limitate eccezioni per qualche operatore nei trasporti autobus).
L’Italia assegna al trasporto locale dei passeggeri un alto valore sociale (da cui i sussidi), e ritiene inoltre che se ne debbano occupare prevalentemente imprese pubbliche (da cui l’assenza di concorrenza).
Le motivazioni sono di due tipi: l’ambiente e la congestione del traffico, in quanto l’alternativa del trasporto privato inquina e paralizza le città dense, e la distribuzione del reddito (spostarsi in automobile costa molto di più, soprattutto data l’elevata tassazione sui carburanti, tra le più alte al mondo, circa due terzi del prezzo alla pompa).
Quindi si assume che il trasporto pubblico sia usato principalmente da utenti a più basso reddito.
Per l’ambiente, l’alternativa automobilistica supertassata fa pagare agli inquinatori di più di tutte le altre fonti di inquinamento (agricoltura in primis, che è addirittura sussidiata, poi industrie “energivore”, poi riscaldamento domestico, ecc.).
GESTIONE PRIVATA O CONTROLLO PUBBLICO
Infine c’è la questione delle imprese pubbliche: non c’è ragione al mondo che dice che un servizio sociale a priori funzioni meglio con imprese pubbliche. Per quelli ferroviari, c’è per esempio il caso tedesco che ha visto la messa in gara dei servizi regionali, con una diminuzione dei costi dell’ordine del 15 per cento e servizi spesso migliorati.
Per quelli urbani e regionali su autobus l’affidamento con gare periodiche non solo funziona molto bene nel resto d’Europa, ma consente anche di tutelare pienamente la socialità del servizio offerto, in quanto è l’ente locale che nel bando di gara, può decidere le tariffe, la rete, e le frequenze che vuole garantire agli utenti. Ma può anche decidere di spendere meno, e usare le risorse risparmiate per scopi sociali diversi.
Inoltre in Italia i lavoratori sono totalmente protetti da “clausole sociali” molto rigide, clausole assenti nel settore privato, che garantiscono sia il posto di lavoro che la retribuzione.
DOSSIER GARE
Comunque nel nostro paese la situazione è paradossale: la normativa europea e nazionale raccomanda da decenni l’affidamento dei servizi con gare, per cercare di migliorare i servizi e/o di ridurre i costi di produzione.
In Italia sono anche state fatte negli scorsi anni più di un centinaio di gare, ma quasi tutte finte: al 95% sono state vinte dall’azienda pubblica che c’era già (ed è un po’ inverosimile che chi c’era già, l’incumbent, fosse davvero sempre il più efficiente tra i concorrenti…).
E la normativa esistente è stata aggirata (oltre che con le gare finte), anche con continui rimandi ed eccezioni, fino all’ultima legge sulla concorrenza del governo Draghi del 2022, che sembrava più rigorosa.
Ma poi all’ultimo momento è comparsa una clausola che per i servizi di trasporto locale era possibile una proroga di affidamenti “in house”, cioè senza gara, anche per 10 anni.
La decisione è stata “bipartisan”, le gare non le vuole nessuno, e nessuno spiega il perché.
Il motivo è ovvio, ma inconfessabile, ed è lo stesso che spiega l’assoluta dominanza del settore pubblico: il “voto di scambio” con addetti e fornitori.
I MOTIVI DEGLI SCIOPERI
A questo si aggiunge il fatto che gli scioperi dei trasporti pubblici sono spesso motivati dal fatto che i dipendenti temono che con l’avvento delle gare la loro forza contrattuale diminuisca. Ovvio che loro difendano i loro interessi, ma in questo caso sembra che ci sia un vistoso conflitto con quelli della collettività.
Infatti le imprese di trasporto pubblico, anche ferroviario, sono dei “monopoli temporanei”, e questo può essere accettato perché si tratta di un servizio sociale (la liberalizzazione completa del settore ha dato infatti risultati molto discutibili). Ma nulla impedisce che periodicamente questo monopolio sia messo in gara, date le garanzie di socialità verso utenti e dipendenti cui abbiamo accennato.
Un sistema di gare (periodiche, generalmente ogni 6-9 anni) è detta “concorrenza per il mercato”, che nulla ha a che vedere con la “concorrenza nel mercato”, cioè con la liberalizzazione del settore. Gare periodiche poi garantiscono che il concessionario sia molto motivato a rispettare i contratti.
Il fatto che siano imprese pubbliche è invece fonte invece di una distorsione radicale per quanto riguarda gli scioperi, molto frequenti nel settore: vivendo queste imprese di sussidi e non potendo “politicamente” fallire, la perdita di ricavi che hanno per uno sciopero è inferiore ai sussidi che comunque gli sono garantiti, quindi addirittura con gli scioperi le imprese spesso ci guadagnano, risparmiando un giorno di salari.
Ovviamente un soggetto privato che avesse vinto una gara di affidamento andrebbe incontro invece a pesanti penali, se interrompe il servizio. E questo in qualche misura sarebbe vero anche per imprese pubbliche diverse da quelle possedute dall’ente locale che ha indetto la gara.
QUALI SONO GLI EFFETTI DEGLI SCIOPERI
E se i lavoratori di società pubbliche avessero solide ragioni di protestare? Non sembrerebbe il caso: i padroni privati sono sempre più esigenti di quelli pubblici, i livelli salariali sono abbastanza buoni (con costi del lavoro nelle imprese maggiori intorno ai 50.000 euro all’anno), il personale è difficilmente licenziabile (è un caso rarissimo), e le imprese non possono fallire.
Ma gli aspetti meno difendibili degli scioperi nel settore è che sono colpiti gli utenti e i lavoratori a più basso reddito, e che in caso di scioperi generali l’astensione complessiva dal lavoro è gonfiata da chi non ha potuto (non non ha voluto) andare a lavorare.
Inoltre questi scioperi danneggiano l’intera popolazione urbana che si muove, a causa della congestione che si genera nel traffico privato, cosa che, dulcis in fundo, genera anche vistosi aumenti dell’inquinamento locale.
Da qui non discende certo il messaggio di limitare per legge il diritto di sciopero.
Ma ne discende certo che nel settore dei trasporti pubblici questo diritto andrebbe usato dai sindacati maggiori con estrema cautela, o a non servirsene affatto.
Anche perché basta una minoranza di scioperanti per paralizzare vasti segmenti del servizio, e l’incertezza sulle adesioni ha un forte “effetto annuncio”: moltissimi viaggiatori nel dubbio sono indotti a prendere comunque l’automobile privata, congestionando il traffico.
(Estratto di un articolo pubblicato sulla newsletter Appunti di Stefano Feltri)