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Fs Italiane

Ferrovie, gli abbagli dei magistrati e quelli degli opinionisti

L'analisi di Paolo Rubino

E’ accaduto talvolta che capi di grandi aziende siano stati portati in giudizio e, in alcuni casi, anche subito condanne. Si è addebitato a costoro la responsabilità di incidenti di particolare gravità o magari di comatose crisi delle aziende da essi condotte. Di recente l’amministratore delegato delle Ferrovie italiane, in carica all’epoca della sciagura di Viareggio, giugno 2009, ha subito, in appello, la conferma della condanna a sette anni perché di quel grave incidente è stato ritenuto colpevole.

L’opinione pubblica si è ovviamente divisa su questo giudizio. Da un lato coloro, la maggioranza probabilmente, che ritiene soddisfatto il bisogno di trovare un colpevole, una persona fisica, con cui si opera la ripulitura della coscienza di massa di fronte alle tragedie che colpiscono altri esseri umani. Dall’altro coloro che invece contestano il giudizio, ma più che spesso lo fanno in ragione di meriti, presunti o meno, che attribuiscono al condannato, quasi che tali meriti acquisiti per infinite ragioni possano immunizzare dalle responsabilità. In entrambi i casi, i soddisfatti e i critici, lo scontro appare emotivo, tifoso o ideologico. Solo una sparuta minoranza guarda attonita alla veemenza con cui si fa strame dello Stato di diritto che non ammette la vendetta e ugualmente fa strame della necessità di valutare, attraverso l’oggettività dei fatti, il valore di una classe dirigente di cui certamente gli amministratori delegati delle grandi aziende sono parte.

Non vi è dubbio che nello Stato di diritto una persona fisica può essere destinataria di una condanna penale soltanto se la colpa o il dolo della persona per l’azione dannosa avvenuta sia stata accertata oltre ogni ragionevole dubbio e tale colpa sia direttamente collegabile all’avvenimento. Può accadere che il giudizio sia condizionato dal contesto, dai sentimenti prevalenti nella pubblica opinione e perfino, qualche volta, dal personale convincimento del giudice. I giudici sono esseri umani, perciò non sfuggono a questi condizionamenti. E quando avvengono siamo di fronte agli abbagli dei magistrati. Ma fortunatamente il nostro sistema giuridico prevede un terzo grado di giudizio la cui missione è resa algida dal condizionamento dei fatti accaduti e dalla loro umana interpretazione.

In terzo grado i magistrati operano per salvaguardare lo Stato di diritto dalle violazioni che gli uomini, anche i magistrati, possono commettere contro il più importante baluardo della civiltà. Nella storia recente del nostro paese è difficile rintracciare casi dove, in terzo grado di giudizio, non abbia prevalso lo Stato di diritto anche nei confronti di capi di governo, leader di partito, famosi capi azienda di cui responsabilità politiche, morali o ideologiche per fatti accaduti non fossero in qualche modo piuttosto evidenti. Per fortuna, poiché tali responsabilità competono esclusivamente all’onore, al valore, alla storia. Bisogna augurarsi che, in assenza di una responsabilità diretta e inequivocabile, anche la recente condanna dell’amministratore delegato delle Ferrovie per la tragedia del 2009 a Viareggio possa essere riconsiderata con la freddezza emotiva che la Corte di Cassazione italiana ha mostrato sempre di avere.

Più preoccupante per il futuro dell’Italia appaiono invece gli abbagli degli opinionisti perché questa appare invece una marea potente e inarrestabile. Nel caso dell’amministratore delegato delle Ferrovie alcuni ne hanno preso le difese con veemenza non diversa dagli assetati di vendetta del fronte opposto. Per tali opinionisti la condanna emessa non è valutata in quanto possibile violazione del diritto, ma piuttosto come oltraggio ideologico ai meriti del condannato. Questo modo di fare opinione caratterizza da oltre un ventennio la cronaca e finanche la Storia del nostro paese. Nel caso in questione, ad avviso di alcuni opinionisti, l’amministratore delegato è stato condannato perché potente, perché ha fatto bene il suo mestiere e perfino perché un tempo “comunista”, anche se magari rivedutosi poi quanto a questo. Gli opinionisti, anch’essi spesso formatisi sulle opinioni piuttosto che sulla faticosa conoscenza dei fatti, accreditano quell’amministratore delegato di risultati brillanti nella conduzione assunta delle Ferrovie.

In effetti, tra il 2005, ultimo anno di una diversa gestione e il 2009, anno della tragedia di Viareggio e quarto della gestione del nuovo amministratore i ricavi dell’azienda sono diminuiti del 4,5%; i costi del 3,8%; il margine industriale è sceso del 26,3%. Forse più inquietante il calo degli investimenti che, nel solo biennio 2007-2009, sono diminuiti del 21,1% e, tra questi, quelli per le tecnologie dedicate alla sicurezza, tra il 2006 e il 2009, calati di ben l’81,4%, impressionante pur trattandosi di modestissime cifre in valore assoluto. Ma è condannabile in un processo l’amministratore delegato per questi risultati. Certamente no, in assenza di un evidente nesso causale tra questi dati e l’incidente di Viareggio.

Resta però il dubbio sul valore di una classe dirigente la cui lungimiranza non sembra emergere con successo da queste cifre. E questo difetto di lungimiranza è ampiamente condiviso dall’azionista che ha conferito il mandato all’amministratore delegato compiacendosi di risultati poco lungimiranti, dagli opinionisti che hanno costruito l’elegia di quella gestione con poco interesse per i fatti crudi. Ma l’opinione di massa non è ugualmente immune da questa responsabilità politica e morale essendosi convinta per anni che l’azienda in questione, le Ferrovie italiane, fosse il coacervo di ogni male, decotta, clientelare, incline ad ogni abuso, in fondo nociva e inutile per la nazione.

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