Elogio di Marchionne di Fca. Annunci di dazi contro le auto asiatiche ed europee. Non mancano le sorprese nella politica commerciale di Donald Trump sempre all’insegna dell’America First. Vediamo fatti, numeri, commenti e scenari partendo dai numeri del comparto auto negli Stati Uniti.
I NUMERI DEL SETTORE
L’industria Usa dell’auto, che vale il 3,5% del Pil e che occupa direttamente 2,5 milioni di persone, abbraccia molti brand che non sono americani rispetto a Ford, General Motors e Fiat Chrysler ma che contribuiscono all’economia degli Stati Uniti.
LE PAROLE AL MIELE PER MARCHIONNE
Donald Trump ha un prediletto tra i dirigenti delle case automobilistiche mondiali. Ed è un’eccezione alla sua regola di America First: l’amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles, Sergio Marchionne. «È lui oggi il mio preferito in questa sala», ha detto il presidente incontrando i vertici delle aziende nella Roosevelt Room della Casa Bianca. Le ragioni del plauso? I piani di Fca per spostare operazioni dal Messico al Michigan, storica patria statunitense delle quattro ruote. Più veicoli Trump li vuole anche sfornati in Ohio e Pennsylvania, Nord e Sud Carolina. E così che “l’obamiano” Marchionne – che siglò appunto con Obama l’accordo per salvare, rilevare e rilanciare i marchi Chrsyler e Jeep, d’incanto è diventano trumpiano. D’altronde lo stesso Marchionne non ha mai proferito critiche al neo presidente americano pur avendo avuto rapporti cordiali con Obama con il quale nel recente passato si è profumo in reciproci elogi.
TRA CASA BIANCA E CASE AUTOMOBILISTICHE
Eppure, nel corso dell’incontro di due giorni fra Trump e le case auto, sono emersi interessi comuni se non identici – l’ammorbidimento degli obiettivi di consumi e emissioni, al centro del mini-summit: la Casa Bianca si profonde, attraverso riforme dell’Agenzia per la protezione ambientale (Epa), contro regolamentazioni giudicate troppo stringenti. I gruppi automobilistici invocano flessibilità per rispettare nuovi target, pur confermando l’intento di migliorarli e evitare polemiche e passi indietro.
LE PROSSIME MOSSE DI TRUMP
Comunque il presidente americano è tornato ad agitare lo spettro di dazi sulle automobili importate dall’Europa e dal sudest asiatico. Trema soprattutto la Germania, che ogni anno esporta negli Stati Uniti circa 500 mila auto e la cui industria automobilistica è stata già colpita negli ultimi mesi dallo scandalo delle emissioni diesel, che ha travolto in particolare la Volkswagen.
I DETTAGLI SULLE TATTICHE AUTO DI TRUMP
Un incontro teso, raccontano alcuni dei partecipanti ai giornali americani, durante il quale il presidente americano – denunciando uno squilibrio sul fronte del deficit commerciale definito “inaccettabile” – ha evocato la possibilità di una tariffa del 20% su ogni autovettura proveniente dall’estero, contro l’attuale 2,5%. Non solo: queste ultime potrebbero restare soggette alle severe restrizioni varate nell’era Obama sul fronte delle emissioni. Proprio quei vincoli e quegli standard che il capo della Casa Bianca vuole invece allentare per le auto prodotte negli Usa. A sobbalzare sulla sedia sono stati soprattutto i rappresentanti di Bmw, Mercedes e Volkswagen-Audi.
GLI EFFETTI PER LA GERMANIA
La stretta di Trump rappresenterebbe infatti per l’industria automobilistica tedesca un durissimo colpo. Non solo perché aumenterebbero i costi delle auto esportate Oltreoceano, ma anche perché nel caso di una guerra dei dazi verrebbero colpite le auto che le case tedesche producono negli Stati Uniti, oltre 800 mila l’anno, di cui almeno un quarto viene venduta in giro per il mondo. Ma pagheranno – se i dazi entrano in vigore – anche modelli importati dall’Italia con i vari marchi Ferrari, Maserati, Alfa Romeo, Lamborghini.
I DUBBI DEGLI ANALISTI
Ma proprio per questo, secondo altri analisti, la prospettata introduzione dei dazi sulle auto importate negli Stati Uniti da Paesi non Nafta (North American Free Trade Agreement, che comprende Canada e Messico) potrebbe avere un impatto limitato sull’industria mondiale, riguardando sostanzialmente modelli di fascia alta e altissima. Al momento, infatti, la totalità dei produttori asiatici (Giappone e Corea) e quasi tutti i brand tedeschi (manca solo la Porsche) sono presenti con propri impianti negli Stati Uniti, rappresentando una quota di immatricolazioni compresa fra il 65 e l’80%, a seconda dei segmenti.
CHE COSA DICE IL REPORT
L’edizione 2018 dello studio Made in America Auto Index, realizzato dall’American University di Washington, sulla base di sette parametri (tra cui margini di profitto, occupazione, collocazione della sede, dei centri di ricerca e sviluppo) valuta il contributo che arriva da ogni singolo modello all’economia Usa. Per il 2017 al primo posto si collocano a pari merito 3 modelli General Motors (Chevrolet Traverse, GMC Acadi e Buick Enclave) con l’85,5% di “americanità” seguiti da Ford F-150 (82%) e Chevrolet Corvette (82%). Ma al quarto posto stupisce il piazzamento di 3 modelli della gamma Jeep Wrangler – brand del gruppo Fca – con un indice dell’81,5%, Nel complesso nei primi 30 posti della classifica delle auto che più contribuiscono al benessere economico degli Stati Uniti ci sono 12 modelli fra giapponesi e coreani e 4 dell’italiana Fca.
LE INCOGNITE ANCHE PER LE CASE USA
Secondo alcuni esperti si aprono incognite anche per le case americane. Ford, General Motors e Chrysler, infatti, hanno delle fabbriche in Messico, dalle quali sfornano vetture destinate al mercato domestico. Le regole del trattato Nafta considerano quelle auto come fossero domestiche purché contengano almeno il 62% di componenti made in Usa. Trump vorrebbe alzare quella quota al 75%, altrimenti pagherebbero dazio come fossero messicane.