“Se sapessi per certo che qualcuno sta venendo a casa mia col deliberato consenso di farmi del bene, scapperei a gambe levate”. Il vecchio aforisma di Henry David Thoreau dovrebbe ispirare il comportamento di tutti i decisori pubblici e invece rappresenta il comandamento più indigesto a politici e burocrati in vena di espandere il loro raggio di intervento: come una corona d’aglio per Dracula. Nulla di cui stupirsi. La carica antiautoritaria che anima quelle parole suona come un invito a limitare le pretese dello Stato: un antidoto alle tentazioni del potere, anzi alla più sottile e nefasta delle sue tentazioni, quella di confinare i cittadini in una eterna infanzia in cui un padre severo ma buono decide per il loro bene. Fatta la tara a tutte le retoriche sovraniste, è un peccato in cui la Commissione Europea cade non di rado.
Segnatevi una data: 10 luglio. Quel giorno il Parlamento dell’Ue sarà chiamato a pronunciarsi sulle nuove regole sulle emissioni confezionate a Bruxelles per limitare l’inquinamento e favorire la transizione alla mobilità pulita. Come sempre avviene in questi casi, gli obiettivi sono ambiziosi, ma ci sono costi e una gestione della transizione molto complessi e non di immediata attuazione. Entro il 2025 le vendite di auto elettriche dovrebbero raggiungere il 15% per poi salire al 30% nel 2030. Non è detto che basti perché nel dibattito che si è svolto in assemblea è circolata anche l’idea di alzare l’asticella al 50%.
Si dirà che quando in ballo c’è la salute non si scherza. Ma qui sta il primo problema. La mannaia mediatica che si è abbattuta sui motori a gasolio dopo il Dieselgate (anno di disgrazia 2015) ha precostituito le condizioni che rischiano di stravolgere l’intenzione originaria, di per sé giusta, nell’ennesima crociata ambientalista. In un clima culturale in cui domina l’ecologicamente corretto non sono in molti a levare la voce in favore del diesel. Eppure con l’approssimarsi dell’ora X si va completando un quadro di evidenze empiriche dal quale emerge chiaramente che l’ostracismo nei suoi confronti rischia di rivelarsi un boomerang: per la nostra salute e per le nostre tasche.
Recentemente il Cnr ha presentato uno studio che indica che le emissioni di CO2 del diesel di nuova generazione sono inferiori a quelle dei motori a benzina. Invece di mettere fuori commercio i propulsori a gasolio sarebbe più conveniente sotto il profilo ambientale promuovere lo svecchiamento del parco circolante. In prospettiva nemmeno le emissioni di NOX (biossido di azoto) destano preoccupazioni. Le nuove tecnologie sperimentate sull’onda del Dieselgate, all’origine del quale vi fu proprio il tentativo di taroccare le rilevazioni di Nox con appositi software installati all’insaputa di clienti e controllori, promettono di abbatterne significativamente la quota. Già oggi, peraltro, è possibile contenere i valori delle emissioni al di sotto del target previsto. Parentesi. In Germania Bosch, che negli anni Novanta ha perfezionato il Common Rail e nel 1922 permise lo sviluppo del motore creato da Rudolf Diesel, ha investito molto sull’innovazione e insieme a Volkswagen è riuscita a mettere su strada, in via solo sperimentale per ora, una Golf in grado di contenere già oggi le emissioni di Nox a un decimo del parametro che sarà adottato dopo il 2020.
Lo studio del Cnr ha anche un altro pregio, ci mette in guardia dal coltivare una fede miracolistica nelle proprietà dei motori elettrici. Prima che si aprano le acque e agli europei si schiuda la strada per la terra promessa della mobilità pulita passerà ancora del tempo. Dall’elettrico può venire e probabilmente verrà un contributo determinante, ma per il momento è meglio non cadere nella rete di chi, appunto, promette miracoli. In realtà l’intero ciclo di produzione di un veicolo alimentato a batteria comporta un livello di emissioni pari a quello di un’auto a benzina, dunque superiore al diesel. La ragione, in fondo ovvia, è che il minore inquinamento prodotto in strada è compensato dal maggior inquinamento causato dalle centrali che (specie in Italia) bruciano gas. In attesa di una totale transizione alle fonti rinnovabili, non si sa se possibile e/o auspicabile, l’elettrico resta un’opzione cui guardare ad occhi aperti.
Un passaggio troppo repentino rischia infatti di generare una scia di effetti collaterali tutt’altro che desiderabili. Analizzando i dati forniti da Daimler, BMW, Volkswagen, Bosch, ZF e Schaeffler, l’Ig Metall, il sindacato tedesco dei metalmeccanici, è arrivato alla conclusione che nel medio termine un’elettrificazione massiccia potrebbe costare all’industria dell’auto 75mila posti di lavoro. La propulsione elettrica necessita di un numero limitato di componenti, appena un sesto rispetto ai motori a combustione, e i tempi di assemblaggio sono decisamente ridotti (circa il 30% in più bassi). Le previsioni sono modellate su uno scenario in cui, nel 2030, il 25% delle auto sarà elettrico, il 15% ibrido e il 60% ripartito tra benzina e diesel. Se però le nuove regole fossero più stringenti di quelle proposte dalla Commissione, cosa che come abbiamo visto non si può escludere, allora i posti di lavoro a saltare potrebbero essere 100mila. C’ è già qualcuno che si è messo a far di conto sulle ripercussioni che il salto all’elettrico potrebbe avere sui i big della componentistica. Secondo il presidente del consiglio di fabbrica di Bosch, Hartwig Geisel, i duemila lavoratori che il gruppo impiega sui motori diesel non possono dormire sonni tranquilli.
In Italia ancora nessuno si è prodotto in un’elaborazione accurata sulle conseguenze del grande balzo sul mercato del lavoro. I sindacati però stanno con le antenne alzate. Il nuovo piano industriale presentato il 1 giugno da Fca ha decretato l’uscita dal diesel entro il 2021 (e nove miliardi di investimento sull’elettrico). Marchionne aveva già garantito prima della presentazione del piano che i 3mila lavoratori impiegati dai due stabilimenti che producono motori diesel, la Vm di Cento (Ferrara) e Pratola Serra (Avellino), non corrono rischi, verranno in ogni caso ricollocati. Che cosa ciò significhi non è però ben chiaro. I contraccolpi su sito di Cento, che sforna il V6 montato sul pick up Ram, la cui produzione è destinata quasi per intero al mercato Usa, dovrebbero essere limitate: i veicoli commerciali restano fuori dall’interdetto al diesel. Ma è su Pratola Serra che si appuntano le preoccupazioni dei sindacati. Qui si fabbricano quasi solo motori diesel: solo lo 0,5% dei 400.000 pezzi sfornati nel 2017 erano a benzina, quelli per l’Alfa 4c e l’Alfa Giulietta Quadrifoglio. E’ evidente che non sarà semplice affrontare una riconversione totale.
Tra l’altro Sergio Marchionne non può certo definirsi un pioniere dell’elettrico. “Arma a doppio taglio” lo aveva definito meno di un anno fa a Rovereto, nella lectio magistralis tenuta al Polo di Meccatronica in occasione della consegna della laurea ad honorem in ingegneria industriale tributatagli dall’università di Trento. Tanti investimenti, questo il senso, pochi benefici, sia per i bilanci che per l’ambiente. Ma poi è arrivato il ripensamento, indotto dalle norme più restrittive che si annunciano sulle emissioni ma anche dalla campagna contro il diesel. Le misure draconiane annunciate da molte città europee, tra cui Roma e Milano, sulla circolazione nei centri storici, che nel giro di pochi anni saranno coronate dal bando totale, di certo non sono estranee alla decisione.
Gli effetti sono peraltro già visibili sulle vendite. A giugno, confermando e aggravando una tendenza in atto da mesi, sul mercato italiano le immatricolazioni sono calate del 7,2%. Il segno meno è dovuto interamente al tracollo delle auto diesel (- 17%), senza il quale la chiusura sarebbe stata leggermente in attivo.
Mettetevi nei panni di un consumatore che sta valutando un nuovo acquisto e che magari è interessato al diesel. Nel migliore dei casi deciderà di attendere, nel peggiore di soprassedere. Per l’Italia, dunque anche per Fca, che a giugno ha lasciato sul terreno il 19%, non sarà facile mettersi alle spalle l’era del gasolio: il diesel nel 2017 valeva ancora il 57% del mercato, dato superiore a quello medio europeo, scivolato sotto il 50%.
I soliti complottisti si consoleranno e proveranno a consolarci accusando i costruttori di aver ordito loro la manovra, con l’obiettivo scontato di promuovere un’ondata di acquisti di auto elettriche e ibride. Peccato però che i costruttori brontolino da tempo contro Bruxelles per una stretta di cui dicono di non afferrare il senso. Alla fine i brontolii si sono trasformati in opposizione aperta quando l’Acea, l’associazione che raccoglie sotto la sua egida le case europee, ha diffuso uno studio secondo cui l’85% di tutte le auto elettriche sono vendute in soli sei paesi che vantano un reddito pro capite superiore ai 35mila euro (Norvegia, Danimarca, Finlandia, Lussemburgo, Belgio e Austria). Invece nei paesi con un pil pro-capite inferiore a 18mila euro, praticamente l’intera Europa centro – orientale, la quota di mercato è prossima allo zero. Inoltre dei circa 100mila punti di ricarica oggi disponibili il 76% è concentrato in quattro Paesi (Olanda, Germania, Francia e Gran Bretagna), con l’Italia all’ottavo posto. Conclusione: l’auto elettrica vale lo 0,75% del mercato continentale, come è possibile pensare che entro 12 anni si tocchi il 30%, si è chiesto l’ex boss di Psa, ora alla guida dell’Acea, Carlos Tavares?
Con questi numeri è chiaro che il piano della Commissione reca l’impronta del wishful thinking. A Bruxelles devono aver preso troppo sul serio le teorie dell’ultimo Nobel per l’economia Robert Thaler sul nudge, ma forse si sono dimenticati che anche una spinta gentile, assestata ad un corpo in equlibrio precario, può produrre un doloroso ruzzolone. E’ quello che potrebbe accadere alle famiglie a basso reddito, schiacciate tra la difficoltà di acquistare in tempo stretti una nuova auto e l’incubo di restare appiedate a causa della fregola ambientalista dell’euroburocrazia. Non sarebbe andata così se quest’ultima si fosse ricordata di Milton Friedman: “Chiunque è libero di fare del bene, ma a spese sue”.