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Vi spiego il tramonto dell’auto tedesca (ed europea)

Anche se il settore auto è quello che soffre maggiormente, l’intera industria tedesca è in sofferenza. L'approfondimento di Mario Seminerio tratto dal blog Phastidio.

Ad agosto, la produzione industriale tedesca ha segnato una contrazione mensile del 4,3 per cento, a fronte di attese per un calo di solo l’1 per cento. Si tratta del peggiore risultato mensile da inizio 2022. Il settore auto ha visto una contrazione del 18,5 per cento sul mese precedente. Il dato, secondo l’ufficio statistico federale, si può ricondurre a prolungamenti del periodo di ferie e a fermi produttivi per gestire la difficile situazione del comparto. Agosto è stato il quarto mese di contrazione per gli ordinativi industriali.

Ripresa rinviata

Terminata la fase delle esportazioni massive prima dell’entrata in vigore dei dazi di Donald Trump, il settore è tornato alla sua crisi esistenziale. Il dato aumenta la probabilità di un’ulteriore contrazione del Pil tedesco, la cui ripresa viene ormai rinviata di anno in anno, come accadeva all’Italia negli anni bui della crisi del debito sovrano, e che successivamente ha ceduto il passo a una crescita esangue e scarsamente produttiva.

Anche se il settore auto è quello che soffre maggiormente, l’intera industria tedesca è in sofferenza, stretta da una tenaglia di fattori avversi che si possono ricondurre a tre elementi: svantaggio competitivo nei costi dell’energia, concorrenza cinese e forte ridimensionamento del mercato statunitense.

Il motore dell’auto, nella crescita tedesca, si è pressoché spento. BMW e Mercedes hanno annunciato forti cali nella quota di mercato cinese, sotto i colpi dei costruttori locali, mentre è venuta meno la valvola di sfogo del mercato statunitense. Secondo l’associazione tedesca dei costruttori automobilistici, VDA, negli ultimi due anni il settore ha perso 55 mila posti di lavoro e altre decine di migliaia sono attese scomparire entro il 2030, su una occupazione totale che oggi è di circa 700 mila persone.

Volkswagen, il maggior produttore tedesco di automobili con più di 100 fabbriche a livello globale, sta affrontando una difficile traversata nel deserto, che porterà a un inevitabile ridimensionamento di produzione e organici. Robert Bosch GmbH, il più grande fornitore di componenti auto al mondo, prevede di tagliare 18.500 posti di lavoro, la maggior parte dei quali in Germania. Anche aziende come Continental stanno riducendo il personale, mentre Ford sta diminuendo personale e produzione in Germania.

Nel primo semestre di quest’anno, i profitti aggregati dei costruttori tedeschi sono diminuiti di un terzo rispetto all’anno precedente, secondo una stima di EY. E già si parla, per la Germania, di un “momento Nokia”, lo shock che ha colpito l’economia finlandese quando il suo produttore di cellulari è entrato in un declino strutturale.

Contagio di filiera

Poiché la Germania, oltre a produrre un quarto del totale dei veicoli europei, è il capo-filiera continentale, dalla Spagna alla Repubblica Ceca all’Ungheria, il rischio è quello di un grave trauma industriale, vissuto non come implosione ma come declino progressivo, a un’economia regionale che resta ancora alla “old economy” e non può avvalersi dell’apporto degli epocali investimenti in intelligenza artificiale e relativa infrastruttura, di cui invece al momento gode l’economia statunitense, sia pure tra crescenti timori di una bolla il cui eventuale scoppio potrebbe produrre gravissimi esiti deflazionistici, oltre ad affondare i mercati finanziari.

Il governo di Friedrich Merz sta cercando di reagire, ad esempio spingendo gli investimenti nella Difesa come volano manifatturiero e tecnologico, ma il processo è lento ed esposto a rovesci. La settimana scorsa, l’esecutivo tedesco ha disposto ulteriori 3 miliardi di euro di incentivi per l’acquisto di veicoli elettrici, sino al 2029 ma Merz stesso ha rilanciato quella che ormai appare una battaglia di pura retroguardia: chiedere alla Ue di eliminare la data del 2035 per la messa al bando del motore termico.

Anche se ciò avvenisse, il rischio diverrebbe quello di bloccare la produzione a metà del guado: indietro non si torna, avanzare è proibitivo. Perché i volumi produttivi tedeschi non saranno più quelli del periodo d’oro, spinti dall’export. Da qui, una struttura di costi che, per quanto ci si crogioli nella retorica dell’elevato costo di lavoro ed energia, resteranno proibitivi. L’effetto congiunto dell’offensiva cinese nelle auto (elettriche, ibride ma a anche a combustione interna, per mercati meno “evoluti”) e della violenta deglobalizzazione attuata da Donald Trump sono elementi destinati a persistere quanto basta per smantellare il settore in Europa.

Questo è il dato oggettivo con cui fare i conti. Abbiamo ormai alle spalle il periodo in cui, in Italia, la posizione del governo e del ministro dell’ex sviluppo economico, Adolfo Urso, era la ripetizione ossessiva del mantra della “neutralità tecnologica”, manco fossimo diventati tutti una specie di Brasile, col suo etanolo nel serbatoio. E anche il pavoneggiarsi per una presunta e mai davvero realizzata “alleanza strategica” tra Italia e Germania, per contrastare le scadenze europee sul motore termico, non ha prodotto alcunché. Anche e soprattutto perché ai costruttori è molto chiaro che non si può tenere il piede in più scarpe: alla fine, si declinerebbe ovunque.

Movimento tettonico, impotenza politica

Perché, al netto della scarsa consapevolezza politica del movimento (planetario ed epocale) che coinvolge il settore auto, alcune tendenze semplicemente hanno un’inerzia troppo elevata per poter essere arrestate e invertite da proclami politici. Trasformarsi negli ultimi giapponesi del motore termico? Evolvere progressivamente e in modo meno massimalista verso l’ibrido? Stampare denaro per sussidiare l’elettrico puro? Su tutte queste opzioni, domina il sopra citato effetto tenaglia della Cina, che ha immolato enormi risorse sul settore auto, producendo l’ennesima crisi da sovracapacità produttiva, e la chiusura del mercato statunitense, associata a quella che definirei la “strategia dell’idrovora” di Trump, cioè drenare aziende dal resto del mondo. Quindi, la struttura dei costi europea del settore non può più beneficiare di economie di scala.

In Italia, Stellantis deve gestire la progressiva fuoriuscita dal nostro paese mentre cerca di rilanciarsi concentrandosi sull’area di maggiore sofferenza, quella statunitense. Avere governi nell’azionariato, come quello francese, non porterà alcun tipo di beneficio, neppure in chiave difensiva. Sia per la crisi fiscale di tali governi sia perché qui siamo di fronte a uno spostamento di placche tettoniche.

Chi legge questi inutili pixel aveva già intuito da tempo la traiettoria del settore e dell’economia tedesca. Avevo anche già segnalato che, al netto del rogo dello spaventapasseri messo in scena da politici la cui inadeguatezza è pari solo alla stanca teatralità, il problema per l’Italia non era il signor Carlos Tavares. A cui è succeduto un nostro connazionale dalla faccia simpatica, che gestirà il disimpegno in modi meno ruvidi. Nel frattempo, per qualcuno è giunto il tempo dei saluti e di cedere i giornali, la cui funzione non è mai stata quella di far soldi direttamente ma di presidiare altri interessi. Quale epifania! Vedrete che, ora, qualcuno si attarderà con la geremiade “con tutti i soldi dati alla Fiat, vergogna!”. Tratteniamo un amaro sbadiglio.

L’Europa dovrà gestire il ridimensionamento del settore nel modo meno traumatico ed oneroso possibile, ma in queste circostanze non si ha pronto all’uso un nuovo settore produttivo a cui far trainare l’economia, con buona pace di tutti le invocazioni, gli auspici e i libri bianchi che si possano scrivere.

(Estratto dal blog Phastidio)

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