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Atac, il referendum e le sbandate su pubblico e privati

L'intervento di Paolo Rubino, ex top manager di Alitalia, sul referendum che si tiene l'11 novembre a Roma su Atac

L’11 novembre si voterà a Roma per il referendum consultivo sul tema dei trasporti pubblici urbani. Argomento affascinante e cruciale per la qualità della vita nella capitale. Che i cittadini possano esprimere le proprie opinioni in materia è, in principio, un’utile opportunità. Tuttavia, lo strumento del referendum, costretto nella necessaria stringatezza dei quesiti, si presta a scivolare nella deriva ideologica. Esso propone alla consultazione popolare l’alternativa tra il mantenimento dell’azienda Atac sotto il controllo pubblico verso l’opzione dell’affidamento del servizio di trasporto ad una pluralità di gestori privati in concorrenza.

I più idealisti tra i sostenitori dell’opzione di affidamento a soggetti privati, ovvero del si al referendum, enfatizzano la natura di liberalizzazione dell’opzione patrocinata contro la natura di privatizzazione che in passato ha prevalso in similari occasioni. Il disegno strategico dei promotori non manca di lodevoli intenti. Esso si basa sull’aspettativa di una virtuosa dialettica tra l’Atac, riconvertita in agenzia pubblica vocata allo svolgimento di compiti cruciali per un’impresa di trasporto e i soggetti privati, deputati allo svolgimento della mera attività operativa del trasporto dei passeggeri.

La nuova Atac, in mano pubblica, manterrebbe le competenze di interprete delle esigenze della domanda di trasporto nello scenario di riferimento; di pianificatore della rete e della flotta; di investitore nella proprietà della flotta; di progettista del servizio e di gestore dei contratti di appalto ai soggetti privati. Questi opererebbero la condotta e la manutenzione dei mezzi oltre al customer service. Gli assunti su cui si regge questo impianto sono, da una parte, l’incapacità del soggetto pubblico di svolgere bene anche il compito di operatore industriale e, dall’altra, che una pluralità di privati sappia svolgere tale attività industriale con un grado maggiore di efficienza ed efficacia.

E’ questo il punto dove il referendum perde di vista la sua dichiarata intenzione di consapevole scelta tra due diversi modelli di business e diventa il giudizio di Dio su tre dogmi indimostrati. Primo, non è dimostrato in chiave logica che il soggetto pubblico abbia la capacità di svolgere il ruolo alto nel processo aziendale del trasporto, ovvero pianificazione, marketing, investimenti e controllo del business. Secondo, non è dimostrato, e appare perfino illogico se fosse vero il primo dogma, che il soggetto pubblico non sia geneticamente abile a svolgere la più banale attività operativa. Terzo, non è dimostrato che il soggetto privato, o anche una pluralità di questi, sia geneticamente capace di svolgere attività operative con profitto. Due aspetti, invece, emergono con forza e supportati sia dalla logica, sia dall’evidenza statistica. Innanzitutto, l’appalto di attività operative a basso valore aggiunto finanziario, ma ad alto valore aggiunto per i clienti, è un percorso lungo il quale si sono cimentate varie e numerose aziende di servizi a partire dagli anni ’90. Questo processo di appalto è noto come terziarizzazione, outsourcing per gli anglofili.

Nella pratica esso ha dato vita a una formidabile esplosione del caporalato legale essendo, produttività e costo dello staff operativo, le uniche leve concesse ad imprese limitate nel loro agire all’esercizio di attività cruciali per la soddisfazione dei clienti, ma costose e poco remunerative. Inoltre, in uno scenario di soggetti operativi plurali, si determina l’inevitabile incrinatura degli standard di servizio che mina alla base l’obiettivo primario della customer satisfaction. Infine, la divisione di tali aziende in due, da una parte la torre eburnea delle competenze cerebrali ad alto valore aggiunto, dall’altra la cayenna delle attività operative ha indebolito entrambi i tronconi di uno stesso mestiere, unico e indivisibile per organizzazioni di successo e, immancabilmente, ha privato le grandi aziende di servizi della linfa vitale del contatto con la realtà dei clienti per la pianificazione dei cambiamenti.

Le aziende di trasporto, e vale per chiunque operi nei servizi, sono organizzazioni olistiche. Come un politico romano di venticinque secoli fa, Menenio Agrippa, seppe spiegare al popolo riunito sull’Aventino, se lo stomaco è separato dalle braccia, rapidamente il corpo umano perisce. Il trasporto pubblico urbano è un’attività che richiede ingenti capitali la cui utilità si misura su archi temporali ultradecennali e si compone di profitto aziendale, ma soprattutto di importantissime economie esterne. E’ dunque un’attività che richiede l’intervento del capitale pubblico sostenuto dalla fiscalità generale. Che l’esercizio di questa attività sia svolto dal soggetto pubblico o dal soggetto privato è un’invariante.

Ciò che in entrambi i casi è imprescindibile è la competenza manageriale e la continuità della gestione. Il finanziamento con capitale pubblico di un’impresa privata, inevitabile in questo caso, ucciderebbe in fasce gli animal spirits dell’imprenditore. L’acquisizione delle migliori competenze e la garanzia della continuità di queste non è per legge impedita al soggetto pubblico.

Paolo Rubino ha lavorato in Alitalia occupandosi di marketing, operazioni, flotta e commerciale tra Roma, Milano e New York. Ha contribuito, nel periodo tra il 1995 e il 1998, alla fondazione e ai primi successi di Air One. Dal 2010 ha fondato la società di consulenza direzionale d&r advisors con la quale ha sviluppato progetti in particolare nei settori del petrolio e gas e delle public utilities. Attualmente è alla guida di tre società, di cui una negli Stati Uniti che opera nel settore petrolifero, due in Italia che operano rispettivamente nei settori delle ricerche di mercato e dell’ospitalità turistica.

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