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Tumore Prostata

Un cannabinoide può contrastare il tumore alla prostata. Studio del Cnr

Un team di ricercatori del Cnr ha scoperto che un componente non psicotropo della cannabis è in grado di contrastare la fase in cui il tumore alla prostata diventa refrattario alla terapia ormonale. Tutti i dettagli

 

Quando il tumore alla prostata diventa refrattario alla terapia ormonale un contributo positivo può arrivare da un componente non-psicoattivo della cannabis, che va a colpire il metabolismo del carcinoma prostatico. Ad affermarlo è uno studio pubblicato su Pharmacological Research e condotto da un gruppo di ricercatori dell’Istituto di chimica biomolecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Icb).

Al loro fianco hanno partecipato anche l’Unità di malattie metaboliche complesse e mitocondri dell’Istituto di ricerca in biomedicina di Barcellona e l’Unità di ricerca sui sistemi complessi e non lineari dell’Università di Portsmouth, nel Regno Unito.

LA SCOPERTA

La ricerca – coordinata da Alessia Ligresti (prima ricercatrice del Cnr-Icb di Pozzuoli) in collaborazione con Roberto Ronca (docente dell’Università degli studi di Brescia) – ha, infatti, dimostrato che quando il tumore alla prostata diventa refrattario alla terapia ormonale, esistono vulnerabilità metaboliche e oncogeniche che possono essere potenzialmente sfruttate terapeuticamente da trattamenti a base di fitocannabinoidi.

COME AGISCE IL CANNABINOIDE

Il componente individuato dai ricercatori si è rivelato infatti in grado di colpire specificamente la plasticità metabolica del carcinoma modulando la bioenergetica dei mitocondri, ovvero la ‘centrale elettrica’ delle cellule.

“Le cellule tumorali, specialmente quelle in fase avanzata, sono in grado di modificare il loro metabolismo per supportare la maggiore richiesta di energia”, ha spiegato Ligresti. “Questa capacità, nota anche come riprogrammazione metabolica, gioca un ruolo chiave sia nell’oncogenesi del cancro alla prostata, cioè il processo che porta alla trasformazione delle cellule normali in cellule cancerose, sia nell’acquisizione della resistenza ai farmaci. Tuttavia, le dinamiche tra metabolismo e oncogenesi non sono completamente comprese”.

IL RUOLO DEI CANNABINOIDI NEL TRATTAMENTO DEI TUMORI

I cannabinoidi di origine vegetale, osserva il Cnr, sono stati usati per molti decenni come agenti palliativi per i malati di cancro, ma negli ultimi anni diversi composti simili e farmaci a base di cannabinoidi sono stati oggetto di intense ricerche per la loro potenziale attività antitumorale.

“Il nostro studio dimostra come, nei modelli preclinici, il CBD (approvato dalla Fda e già prescritto per trattare le convulsioni associate a diverse forme di epilessia infantile), quando opportunamente combinato con altri fitocannabinoidi non psicoattivi, sia particolarmente efficace nel ridurre la crescita del cancro alla prostata refrattario agli ormoni, prendendo di mira i mitocondri”, ha aggiunto Ligresti.

LA PROTEINA CHIAVE A CUI SI LEGA IL CBD

Come spiega la ricercatrice, “una delle proteine chiave che regolano la funzione mitocondriale, e che è responsabile sia del metabolismo cellulare che della via di segnalazione della morte/sopravvivenza cellulare, è VDAC1. Legandosi al VDAC1, il CBD determina un’accelerazione del metabolismo della cellula tumorale, innescando meccanismi di compensazione che attivano la cosiddetta morte programmata o apoptosi”.

APPROFONDIRE IL POTENZIALE TERAPEUTICO DEI CANNABINOIDI

Lo studio fa luce sull’importanza di utilizzare queste molecole in combinazioni ottimali per sfruttare appieno il loro potenziale terapeutico come agenti antitumorali: “La speranza – ha detto Ligresti – è che questi risultati favoriscano studi futuri, compresi studi clinici, sul possibile uso di cannabinoidi non psicotropi come coadiuvanti per il trattamento del cancro alla prostata”.

I DATI SUL TUMORE ALLA PROSTATA

In Italia, secondo la Fondazione Airc, il cancro della prostata, al novembre 2021, era il tumore più diffuso nella popolazione maschile e rappresentava il 18,5% di tutti i tumori diagnosticati nell’uomo. Le stime relative all’anno 2020 parlavano di 36.074 nuovi casi l’anno a livello nazionale.

Nonostante l’incidenza elevata, il rischio che la malattia abbia un esito infausto è basso, soprattutto se si interviene in tempo. Rispetto al 2015, nel 2020 è stata stimata una riduzione dei tassi di mortalità del 15,6% e a distanza di 5 anni dalla diagnosi circa il 92% degli uomini è ancora vivo, una percentuale tra le più alte in caso di tumore, soprattutto se si tiene conto dell’avanzata età media dei pazienti.

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