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Educazione

Porre fine alla povertà educativa minorile per eliminare la povertà sociale

Una condizione sfavorevole di partenza può avere effetti di lungo periodo perché i bambini che nascono in condizioni di pregiudizio e ai quali vengono negate le opportunità di apprendere e condurre una vita autonoma ed attiva rischiano di diventare gli esclusi di domani. L’intervento di Alessandra Servidori, componente del Comitato interministeriale di indirizzo strategico del Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile

 

La povertà è una piaga del nostro mondo avanzato sulla quale si interrogano economisti, sociologi e studiosi di altre discipline già da molto tempo. Come è possibile che in una società avanzata, dove tecnologia, istituzioni e cultura hanno raggiunto traguardi così alti non si riesca a sradicare la povertà?

Tra le diverse forme di povertà, poi, quella dei bambini e dei ragazzi è certamente la più ingiusta: sia perché è evidente che “non è colpa loro”, sia perché, accompagnandosi spesso con la povertà educativa, ha effetti non limitati al presente, ma destinati a durare per molti anni con conseguente disagio di lungo periodo per le persone e con effetti negativi di lungo termine sul progresso economico e sociale del Paese. Il pericolo è dunque il perpetuarsi di uno svantaggio ingiusto di generazione in generazione.

Tra povertà intesa quale deprivazione materiale e povertà educativa c’è un circolo vizioso che si alimenta in ambedue i sensi. Essere poveri sul versante materiale aumenta il rischio di essere poveri dal punto di vista educativo e viceversa. Una condizione sfavorevole di partenza può avere effetti di lungo periodo perché i bambini che nascono in condizioni di pregiudizio e ai quali vengono negate le opportunità di apprendere e condurre una vita autonoma ed attiva, rischiano di diventare gli esclusi di domani.

In Italia sono 1,4 milioni i minori che vivono in uno stato di povertà assoluta, il triplo rispetto allo scorso decennio, mentre circa 2,2 milioni si trovano in una condizione di povertà relativa. Questi indicatori in termini economici sono diversi da Paese a Paese, in Italia la povertà assoluta è generata da un calcolatore messo a disposizione dall’Istat per determinarne il valore. In una famiglia di due adulti e due bambini (0-3; 4-10), ad esempio, è di circa 1.500 euro. La povertà relativa è invece attribuita a chi percepisce e vive con un reddito del 50% in meno rispetto alla media nazionale. Un dato in netta crescita.

Secondo l’Istat, infatti, l’IPE – Indice di Povertà Educativa, si definisce attraverso quattro dimensioni: Partecipazione, Resilienza, Capacità di intessere relazioni e Standard di vita; ma si riferisce solo a un target di giovani tra i 15 e i 29 anni. La mancanza di dati aggiornati a livello locale e il range, che non comprende tutte le fasce dell’età evolutiva, su cui si basano queste metriche, non ci fornisce un quadro completo.

Vero è comunque che la povertà educativa che ne deriva crea un danno dai primi anni di vita per poi limitare i livelli di apprendimento delle competenze nei periodi successivi. Ecco quindi che la disuguaglianza che si sviluppa nel minore povero è elevata al quadrato, perché nascere in una famiglia svantaggiata non è spesso una condizione transitoria, è un fatto che può segnare e condizionare tutta la vita. Inoltre, quando si discute di famiglie svantaggiate e povere, non consideriamo solo la povertà assoluta e relativa come indigenza ed esclusione sociale ma anche e ovviamente la povertà culturale, relazionale, ambientale.

I bambini che provengono dalle famiglie più svantaggiate hanno meno opportunità di prendere parte ad attività sportive e sociali che contribuiscono alla loro qualità di vita, alle relazioni sociali e in generale al loro livello di soddisfazione nella vita. Crescendo incontrano maggiori ostacoli nel diventare componenti attivi della società, nel trovare lavori di buona qualità e stabili e nel realizzare dunque il proprio potenziale.

Se poi sulle condizioni su indicate si innestano anche le problematiche del crescere in un territorio anch’esso svantaggiato, la situazione del disagio si eleva al cubo. La dimensione familiare è, dunque, centrale, come lo è l’ambiente circostante, perché entrambe influenzano la crescita dell’individuo.

Occorre intervenire sul contesto, perché il bambino impara lì dove vive e impara dalle abitudini, dalle manifestazioni, dai comportamenti con cui entra in contatto. Migliorare i contesti (familiari ed esterni) contribuisce a risolvere la povertà all’origine. La struttura della famiglia, ad esempio, i nuclei monogenitoriali (48,1%) e quelli composti da entrambi i genitori ma dove sono presenti tre o più minori a carico (32,2%) rappresentano le tipologie familiari a maggiore rischio. Come pure l’intensità lavorativa della famiglia; i minori che vivono in famiglie a molto bassa e bassa intensità di lavoro sono a maggior rischio di povertà di coloro che vivono in famiglie a media ed alta intensità lavorativa.

L’incidenza della povertà minorile si conferma in proporzioni quasi doppie rispetto a quella della popolazione adulta nel suo complesso.

I dati certificano il fallimento delle politiche di contrasto alla povertà minorile messe in atto finora. È indispensabile cambiare strada per proteggere i bambini, le bambine e gli adolescenti del nostro paese da un impoverimento in continua crescita, e porre riparo ad una evidente “ingiustizia generazionale” che oggi pesa sulle loro spalle. È necessario sostenere con forza la richiesta al Governo di raddoppiare le risorse del Fondo Sociale Europeo Plus da destinare in modo specifico alla Garanzia Infanzia (Child Guarantee), per assicurare ai bambini servizi essenziali per la loro crescita, e di rivedere le modalità di attribuzione del reddito sociale per sostenere in particolare le famiglie con bambini.

Per evitare che la povertà materiale si trasformi in povertà educativa per intere generazioni, è evidente un investimento maggiore sull’educazione e sui servizi locali ad essa connessa, e che i fondi stanziati, a partire da quelli del PNRR, diano priorità alle zone dove la povertà minorile è più acuta, per attivare “zone ad alta densità educativa” che proteggano bambini, bambine e adolescenti dagli effetti drammatici della povertà sul loro percorso di crescita.

Se si pensa che siamo la terza nazione in Europa con il più alto tasso di abbandono scolastico dopo la Romania c’è sicuramente un problema di sistema.

Esiste però un’intera comunità educante attiva in modo distintivo sui diversi territori italiani, un ponte tra le opportunità e l’accesso a queste. Parliamo di centri di aggregazione, case-famiglia e associazioni, microcosmi in cui i bambini possono permettersi di “crescere”.

Dal 2016 esiste un fondo che attualmente si avvale di 700 milioni di euro per il contrasto alla povertà educativa minorile in Italia, grazie a un protocollo d’intesa fra le Fondazioni di origine bancaria, l’ACRI (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio SpA) e il Governo, con la collaborazione del Forum Nazionale del Terzo settore. Il fondo ha dato vita ad un progetto che durerà fino alla fine del 2025. Si chiama Villaggio educante e coinvolge 17 Comuni del Friuli Venezia Giulia, 1.200 bambini, 100 insegnanti ed educatori e oltre 50 operatori del settore. Un’opportunità per integrare 4 nuove strutture di asili nido ampliando scuole dell’infanzia esistenti e avviare laboratori permanenti con attività extrascolastiche come danza, arte, musica, inglese, psicomotricità e pet education, anche per i non iscritti. Sono previsti, inoltre, programmi di sostegno alla genitorialità in cui è anche possibile confrontarsi tra famiglie.

Per i docenti, invece, è stato costituito un progetto di formazione continua multidisciplinare per sviluppare un modello operativo dinamico e coerente con gli obiettivi di contrasto alla povertà educativa.

Il Fondo gestito da un Comitato interministeriale, entro giugno, pubblicherà un Bando a cura di Acri che si occuperà di disagio psicologico minorile per cercare di contribuire a contrastare questo fenomeno che ultimamente affligge molti bambini.

Integrazione e inclusione possono nascere soltanto dove è prevista una progettualità educativa che sfrutti ampie reti di collaborazione e di confronto. Il compito da portare avanti, tra le istituzioni responsabili della presa in carico, è di creare sinergie e alleanze sempre più strette. La comunità, più che in passato, oggi è consapevole che l’intervento educativo offerto ha bisogno di sponde con l’esterno e, per questo, non si chiude in sé stessa, non ritiene di essere in sé bastante, e ricerca sempre più frequentemente alleanze e collaborazioni, in un’ottica di condivisione della responsabilità, di ampia partecipazione. E anche di cambiamento, se è vero che “accogliere e accompagnare significa sviluppare un percorso esistenziale rendendosi conto che i cambiamenti sono tanto dei soggetti quanto dei contesti e, quindi, avendo cura di tenere i collegamenti tra il soggetto che cambia, il contesto che cambia, e quindi il rinnovamento delle risorse di cui il bambino ha bisogno.

Per questa via, la comunità di accoglienza, assieme alla scuola e alle altre agenzie educative, diviene capace di educare cittadini attivi e partecipi, in grado di liberarsi dalle catene della povertà educativa, della stereotipia familiare per conquistare migliori condizioni di benessere, di qualità di vita, di inclusione e di produttività all’interno delle dinamiche della convivenza civile.

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