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Fringe Benefit Istruzione Tecnico Professionale

Perché l’istruzione tecnico professionale nella scuola italiana non decolla?

Dei diplomati italiani, oltre un terzo consegue una qualifica tecnico professionale; si tratta di un settore chiave nel nostro sistema di istruzione, soprattutto nel Nord del paese. Da analisi e dati però risultano diverse problematiche. L'approfondimento a cura di Tiziana Pedrizzi della Fondazione Anna Kuliscioff

 

Nella mattinata del 12 settembre sono stati presentati a Parigi da OCSE i risultati di Education at a Glance 2023, il principale compendio internazionale di statistiche nazionali comparabili che misurano lo stato dell’educazione. Fra i paesi coinvolti Argentina, Brasile, Bulgaria, Cina, Croazia, India, Indonesia, Perù, Arabia Saudita e Sud Africa. Ogni paese presenta i suoi risultati in contemporanea.

Come l’anno scorso i dati italiani sono stati presentati al MIUR dal Ministro Valditara e dalla direttrice del Centro per la ricerca educativa e l’innovazione dell’Ocse Tia Loukkola, con il coordinamento del presidente di Invalsi Roberto Ricci. L’intervento del ministro ha affrontato alcuni punti delle politiche in atto, poste in relazione con i dati emersi nella ricerca: l’importanza della educazione prescolare a fini di equità, la ristrutturazione della istruzione tecnico-professionale in un 4+2 che aggiunge un livello terziario fin qui in Italia sostanzialmente mancante, la necessità di colmare il divario italiano di diplomati soprattutto al Sud ed infine di rendere attrattiva la professione docente che soffre di una grave crisi di immagine e pertanto di vocazioni in tutti i paesi analizzati dal Rapporto OCSE.

Il focus del rapporto 2023 è l’istruzione tecnico professionale e il finanziamento e l’organizzazione del sistema scolastico.

Nel nostro paese la quota di giovani adulti (25/34 anni) senza un’istruzione secondaria superiore è scesa dal 26% al 22%, ma il Rapporto osserva che in Italia le differenze regionali sono importanti ed infatti al Sud  la percentuale sale al 25%. Rimane comunque alta rispetto a quelle degli altri Paesi analizzati. Dei diplomati italiani, oltre un terzo consegue una qualifica tecnico professionale; si tratta di un settore chiave nel nostro sistema di istruzione, soprattutto nel Nord del paese. Dai dati risulta però che la componente maschile è prevalente; insieme con i risultati inferiori in Matematica delle ragazze attestata dalle indagini Invalsi ne risulta uno squilibrio di genere negli studi e pertanto nelle professionalità successive che pesa in modo molto significativo sul nostro sistema.

Ma il problema della istruzione tecnico professionale italiana secondo il Rapporto sta nel fatto che manca di fatto il suo completamento a livello terziario. Il che fra l’altro spiega il gap di iscritti e laureati/diplomati rispetto ad altri paesi a questo livello terminale della formazione. Infatti gli ITS che dovevano rispondere a questa esigenza sono ancora relegati solo in alcune Regioni. Il timore di istituzionalizzare ed ingessare un tipo di formazione che richiede un rapporto flessibile con il mondo del lavoro ha portato a creare negli ITS una struttura molto complessa ed anche aleatoria che non riesce a garantire una diffusione più omogenea ed una stabilizzazione quantitativa.

Quanto agli esiti occupazionali, risulta che nella maggior parte dei paesi i tassi di occupazione dei giovani adulti con una qualifica di istruzione secondaria superiore tecnico professionale sono più alti rispetto a chi si laurea. Prevedibilmente i guadagni sulla lunga distanza sono inferiori. Ed altrettanto prevedibilmente il rischio di diventare Neet (chi non studia né lavora) è più alto tra i 25-29enni diplomati che tra i laureati, visto che comunque il conseguimento di un titolo di studio terziario richiede un impegno più duraturo. La quota di Neet italiani è più alta al Sud e nelle Isole anche se nel complesso sembra essersi abbassata quanto meno dal 2015 al 2019, anno del quale sono disponibili gli ultimi dati.

Per quanto riguarda i fondi destinati alla scuola, su periodi più lunghi gli investimenti, in tutti i Paesi Ocse, crescono con la stessa velocità del Pil mentre la spesa pubblica italiana per l’istruzione dal 2008 al 2020 è diminuita, sebbene il numero di studenti sia rimasto stabile. Si conferma la tendenza italiana a spendere di più nei livelli inferiori di istruzione (probabilmente anche in relazione al significativo investimento di personale per l’handicap): negli ultimi anni infatti la secondaria e soprattutto la terziaria sono stati penalizzati, al contrario di ciò che avviene in un numero significativo di altri paesi. Ed infatti la spesa per ogni bambino della scuola per l’infanzia è aumentata dal 2015 al 2020. Anche se il Rapporto ricorda che in Italia si ha un tasso di bambini di 3 anni iscritti a scuola minore rispetto ad altri paesi, che in alcuni casi raggiungono una percentuale del 100%.

Quanto alla quantità di istruzione il Rapporto ribadisce che in Italia si fa lo stesso numero di ore di scuola dell’obbligo della media dei paesi Ocse. La differenza sta nel numero di vacanze/interruzioni scolastiche poiché in Italia le vacanze estive sono le più lunghe in assoluto, con 13 settimane di durata. Nei decenni passati questo dato è stato oggetto di lunghe discussioni e la autonomia data a Regioni e scuole nel merito si pensava potesse portare a significative variazioni. In realtà i cambiamenti non superano ad oggi la settimana e vengono utilizzati per allargare leggermente i periodi di vacanza soprattutto in relazione ai possibili ponti. Anche in altre occasioni (recuperi COVID) il fattore climatico che porterebbe le scuole ad essere inagibili dopo il 15 giugno e prima della metà di settembre è stato portato a motivazione di questa pausa così lunga. Che evidentemente può influire sulla motivazione, rendendo quella scolastica una esperienza meno psicologicamente pervasiva per gli allievi e consolidando la propensione a dedicarsi ad altre attività, non sempre mitigata dai famosi compiti delle vacanze.

Nel suo discorso il Ministro Valditara ha dato grande risalto alla tematica del ruolo e della motivazione degli insegnanti in relazione alla attrattività della professione. Per l’Italia si dà grande importanza al fatto che gli stipendi dei docenti sono troppo bassi, più bassi rispetto alla media dei paesi presi in considerazione dal Rapporto e già dallo stipendio iniziale. A questo si aggiunge il fatto che in altri paesi lo stipendio aumenta di più nel corso della carriera.

In generale OCSE osserva che a parità di spesa i paesi tendono a seguire diverse linee di condotta: c’è chi punta su un rapporto alunni-docenti più alto, orari di lavoro più lunghi, ma stipendi più alti ed in progressione e chi invece su più personale con perciò una riduzione del numero di allievi, ma anche stipendi più bassi e livellati. Non è difficile collocare l’Italia fra queste due alternative: la polemica sulle cosiddette classi-pollaio evita sempre di dare i numeri reali e tace delle classi con numeri inferiori ai 15 tutt’altro che rare.

Ma il Rapporto ci dice anche che quello del numero e della motivazione degli insegnanti è diventato un problema diffuso che ha portato in alcuni paesi europei ad una carenza soprattutto nelle aree tecnico-scientifiche. Gli stipendi degli insegnanti sono più bassi rispetto a quelli degli altri laureati e tra il 2010 e il 2022 il potere d’acquisto degli stipendi dei docenti è sceso in molti Paesi. Si tratta di un tema complesso e dalle molte sfaccettature che non si può affrontare senza tenere conto degli aspetti culturali dei cambiamenti in corso, soprattutto nei paesi cosiddetti avanzati e di cui forse tale situazione è l’effetto. Per quanto riguarda peraltro la situazione italiana c’è da ricordare che nel nostro paese il rapporto fra il numero allievi e numero docenti è fra i più bassi e che perciò si è data la precedenza alla quantità. Quanto agli aumenti in corso di carriera tutti ricordiamo i tentativi falliti di articolare la professione sia con incarichi aggiuntivi che con la valutazione del lavoro di classe.

In Italia gli unici che si trovano in una situazione salariale migliore rispetto a quella dei pari degli altri paesi sono i dirigenti scolastici probabilmente per la scelta attuata negli anni ’90 di accentuare nel profilo l’aspetto dirigenziale con tutte le ricadute anche contrattuali che ne sono seguite.

Nel recente convegno di Espanet Italia tenutosi a Milano dal 13 al 15 settembre si è posto al centro dell’attenzione il tema del rapporto fra dispersione esplicita (abbandoni dovuti soprattutto a bocciature) che sta diminuendo e dispersione implicita (conseguimento di titoli senza acquisizione di competenze messa in rilievo dai risultati delle prove Invalsi di 5° anno) che invece si tiene sempre su livelli alti. Alla vigilia di un significativo investimento del PNRR in ore di scuola aggiuntive, i convegnisti hanno sottolineato la necessità di valutare gli esiti di queste attività, che peraltro vedono già da decenni significativi investimenti in quelle che vengono definite aree a rischio. Pare che ciò non sia stato quasi mai fatto. Sarebbe davvero l’ora di cominciare.

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