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natalità italia

L’Italia non è un Paese per mamme

Tra nidi insufficienti, salari bassi e carichi di cura che ricadono sulle madri, spesso sole e con contratti precari, l'Italia non sostiene le famiglie. Servono riforme strutturali e un welfare contrattuale. L’intervento di Alessandra Servidori

 

Perché in Italia non si mette su famiglia pare essere ancora una volta, dalle “sentenze” che leggiamo in questi giorni, colpa delle giovani donne. La verità però è che, culturalmente e valorialmente, siamo ancora un Paese dove fa notizia se alcune professioniste si costruiscono per emergere i cosiddetti BOARD OF WOMAN (un po’ patetici), ma non l’impegno concreto sul persistere di mancanza di sostegni strutturali e continuativi alle famiglie. Niente di più evidente da segnalare senza essere tacciati di essere antigovernativi; anzi, proprio con l’intento, per ciò che mi riguarda, di mettersi all’opera più convintamente.

Vorrei, anzi, che fosse chiarito una volta per tutte che per le donne lavorare, occuparsi anche di figli piccoli o adolescenti, genitori anziani e soprattutto disabili, senza essere adeguatamente aiutate, è uno stress “lavoro-correlato” sistematico. Dunque, il 35,6% delle madri di famiglia lavora a orario ridotto per poter gestire la loro comunità affettiva, perché è solo sulle loro spalle e con salari bassi. Le madri sole sono sempre più sottoposte a fatiche che si protraggono nel tempo, con un logorio e un invecchiamento precoce, perché lavorano nei servizi alle persone, servizi alberghieri, con contratti spesso non regolari e i loro figli sono tra le classi di bambini compresi nella povertà assoluta.

Innanzitutto, mancano i nidi e le strutture per l’infanzia perché siamo inchiodati al 30% nonostante le risorse annunciate nel PNRR, con differenze territoriali che toccano nel Sud la sola presenza del 17% di strutture per sostenere i piccoli e dare forse l’opportunità alle giovani meridionali di mettere al mondo bambini, soprattutto se i nidi pubblici sono scarsi e costosissimi nel privato. Si afferma che la presenza femminile è aumentata leggermente nelle costruzioni (+0,8%), ma ovviamente siamo sempre in contratti di mansioni d’ufficio, mentre cresce l’inattività femminile tra i 15 e i 64 anni, che sono oltre 7,8 milioni, cioè il 63,5% del totale, e la causa è evidente: l’ancora delle responsabilità di cura familiare e il numero di donne che comunque lascia il lavoro dopo la prima gravidanza è stabile al 20%. Crescono solo in occupazione le donne over 50, che passano dal 46,8% al 56,7%.

Dunque, che fare ragionevolmente? Puntare a una contrattazione nei vari settori dove i fondi bilaterali incentivino il sostegno alla genitorialità sussidiaria, cioè a sostenere in certi periodi le lavoratrici e i lavoratori che hanno carichi di famiglia onerosi con congedi mirati, anche in imprese piccole che possono prevedere accordi territoriali settoriali e dimensionali di congedi, anche attraverso il Fondo Sociale Europeo.

Vi è una figura trascurata a livello italiano che è il manager dell’inclusione, che può essere al servizio di strutture aziendali (di gruppo) che devono saper riorganizzare tempi e modalità di lavoro per favorire l’entrata e la permanenza nel mercato del lavoro, soprattutto ora con l’avvento delle nuove tecnologie. Si tratta di conoscere la situazione normativa, avere accesso ai progetti di finanziamento del sistema, anche di welfare, per potenziare il ruolo degli attori sociali nei vari contesti produttivi e di formazione, per favorire progetti di sistema e misure operative.

A livello nazionale, il compito è quello di sistemare una volta per tutte i sostegni alla famiglia, rivedendo i vari contributi ancora troppo frammentati e attuare concretamente un sistema interministeriale che elimini quella parcellizzazione delle risorse che non siamo ancora riusciti a programmare e razionalizzare, e che sono finite in vari rivoli che non risolvono, se non momentaneamente, la questione della natalità e dell’invecchiamento. Abbiamo seri problemi sulla prevenzione, sulla formazione, sulla non autosufficienza, sull’inserimento al lavoro e una mancanza di attenzione seria alla disabilità, che non vede soluzioni vere; risorse che sfuggono a un sistema strutturale e si perdono in incentivi a tempo determinato, progetti e progettini che non incidono sul lungo termine; ministeri che si tengono strettamente le loro risorse e non le condividono con gli altri; campagne elettorali continue che impoveriscono sistematicamente le iniziative che servono; decontribuzioni alle aziende per incoraggiarle ad assumere che però, e questo da anni, non sostengono le famiglie e non sanno usare la contrattazione del welfare, anche per colpa dei sindacati che, in effetti, dovrebbero studiare un po’ di più.

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