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Intervista Mons. Paglia

Le cure palliative come servizio alla vita e alla dignità della persona, anche anziana. Intervista a Mons. Paglia

L'intervista di Francesco Provinciali a S.E. Mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la vita, sull’importanza della dignità della persona anche nelle fasi terminali della vita e, dunque, sulla possibilità di ricevere cure palliative

 

L’intervista di Francesco Provinciali a S.E. Mons. Vincenzo Paglia, arcivescovo e attualmente Presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Gran Cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia. Consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio, per il suo impegno per la pace ha ricevuto il premio Gandhi dall’Unesco, il premio Madre Teresa dal governo albanese e il premio Ibrahim Rugova dal governo del Kosovo. Giornalista e scrittore, è autore di saggi di carattere religioso e sociale tradotti in varie lingue. 

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Le cure palliative sono volte a garantire la qualità della vita del paziente e dei suoi familiari: il documento diffuso in questi giorni dalla Pontificia Accademia per la vita sottolinea – richiamando anche le parole di Papa Francesco – l’importanza della dignità della persona anche nelle fasi terminali della vita. Perché è importante ricordare non solo i malati terminali ma anche gli anziani?

Gli anziani sono una parte “debole” della nostra società, insieme ai malati, ai minori e ai bambini. Tuttavia è importante effettuare delle distinzioni. Non tutti gli anziani sono malati, anzi. E non tutti i malati sono anziani: anche qui non dobbiamo cadere nelle facili generalizzazioni. Allora una società che voglia dirsi umana e civile, all’altezza dei nostri tempi, deve prendersi cura di tutta la popolazione e soprattutto delle fasce più deboli, di chi da solo “non ce la fa”.

Come sono cambiate nel tempo le cure palliative? Prima erano riservate esclusivamente alla malattia terminale, adesso, soprattutto in ambito oncologico, sono dette “precoci e simultanee” ovvero non necessariamente successive ma anche concomitanti alle terapie attive, per anticipare il più possibile il sollievo dalla sofferenza anche nelle fasi precedenti. Quanto è importante il continuo interagire di scienza ed etica per focalizzare questo tema?

L’accesso alle cure palliative arriva al momento della diagnosi quando si prevede che la malattia conduca al decesso in un tempo medio o breve. Esse possono essere integrate nell’assistenza anche quando si somministrano terapie che intendono modificare il decorso della patologia in atto. Quindi sarebbe auspicabile impostare un approccio palliativo prima di trovarsi nella fase finale, quando non si impiegano più le terapie che si utilizzano per guarire o fermare la malattia.

È questa la cultura nuova delle cure palliative che la Pontificia Accademia per la Vita promuove e ha sintetizzato nel “Libro Bianco per la Promozione e la Diffusione delle Cure Palliative nel mondo”, pubblicato nel 2019, redatto da un gruppo di 14 esperti internazionali. Pubblicato prima in inglese, poi in italiano, tedesco e presto in spagnolo e portoghese, il volume è un punto di arrivo – e di ripartenza – per tutte le categorie di persone coinvolte, senza dimenticare le Facoltà di Medicina, gli operatori sanitari, le Università, incluse quelle Cattoliche.

Consideriamo il rapporto tra cure palliative e territorio per evidenziare l’importanza dell’hospice come luogo protetto per il fine vita e dell’assistenza domiciliare come supporto quotidiano al difficile ruolo del caregiver e strumento di continuità di cura per i pazienti: è necessario potenziare questo strumento perché grazie alle nuove terapie aumenta la sopravvivenza dei malati cronici e quindi il numero di pazienti a cui sono necessarie. Quali nuove frontiere ci attendono?

Per l’Italia, abbiamo visto nella pandemia gli effetti negativi di una medicina o di un’assistenza sanitaria che ad esempio ha collocato gli anziani nelle RSA, staccandoli dal loro territorio, dalla loro casa, dal loro ambiente. C’è da dire che su 14 milioni di ultrassessantacinquenni, in Italia, di cui 7 milioni dai 75 anni in su, il sistema delle RSA si occupa direttamente di 200 mila anziani. Ecco perché è necessario non smantellarle, ma potenziare in maniera nuova tutto il sistema di assistenza. In base a un principio semplice: vivere in casa propria fin quando è possibile. E certo si può realizzare l’obiettivo attraverso una rete di servizi che gravitano intorno alla persona anziana e al suo mondo, per non lasciarla sola.

È ricorrente nelle argomentazioni della Pontificia Accademia per la vita sottolineare l’importanza di non confondere il concetto di sedazione palliativa con quello di eutanasia: la prima non abbrevia la vita ma è un atto terapeutico che ha come scopo il sollievo dalla sofferenza, la seconda è un atto finalizzato a provocare intenzionalmente la morte. La differenza è enorme sul piano terapeutico e su quello dell’etica e dei valori.

Sono infatti due operazioni completamente diverse. La Pontificia Accademia per la Vita, in linea con i documenti del magistero ecclesiale, e con le più recenti acquisizioni della medicina, è senza se e senza ma a favore delle cure palliative. La Chiesa dal canto suo si esprime a favore della cura e del prendersi cura della persona malata nelle situazioni di bisogno in cui si trova, rigettando l’eutanasia.

Questo non significa che alcuni trattamenti, anche di sostegno vitale possano essere rifiutati o sospesi, cioè quando si tratta di ostinazione irragionevole (accanimento terapeutico). In questo caso non si provoca la morte, ma si lascia che essa accada, in quanto momento ineluttabile e universale della condizione umana, in cui siamo tutti coinvolti. L’atto del morire deve avvenire in una maniera degna della persona umana. Per i credenti, la morte non è la fine definitiva dell’esistenza, è un passaggio verso una dimensione ulteriore, in base alla promessa del Vangelo, in cui crediamo fermamente.

La figura del medico tra scienza e fede: si tratta di due aspetti incompatibili o complementari?

La pratica quotidiana di centinaia di migliaia di operatori sanitari, credenti, in tutto il mondo, dimostra che non c’è incompatibilità. Tuttavia non vorrei cadere nell’equivoco: non c’è un ‘di più’ della fede nell’atto medico. La medicina, tutta, sempre, deve avere un volto umano cioè deve prendersi cura dell’altro, della persona malata, che va trattata come un essere umano, non come un numero.

Il consenso informato – usando il glossario messo a punto dal Policlinico Gemelli – rappresenta la sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello di autodeterminazione e quello alla salute, perché se è vero che ogni individuo deve essere curato, egli ha altresì il diritto a ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico a cui può essere sottoposto. Quanto ciò è determinante per consentire la libera e consapevole scelta da parte del paziente?

Nella storia della medicina abbiamo assistito a una crescita progressiva del ruolo del paziente, superando quell’atteggiamento che veniva definito paternalismo medico. Si è entrati in quella fase che viene definita post-Ippocratica. Essa comporta una maggiore attenzione alla persona malata, in modo che possa decidere a quali trattamenti sottoporsi tra quelli disponibili e adeguati alla sua situazione clinica, possibilmente coinvolgendo le persone care che sono disponibili a partecipare e sostenere le sue scelte. Per poter assumere queste decisioni il paziente deve quindi essere informato.

Nella pratica la situazione non è così semplice per la complessità delle informazioni che occorre trasmettere e per il rischio di ridurre la relazione tra medico e paziente a una sorta di contratto che regola la erogazione di prestazioni asettiche. Occorre situare il consenso informato nel quadro della relazione di cura.

La legge n. 38/2010, il pronunciamento del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) e la legge 219/2017 definiscono la liceità etica e giuridica della sedazione palliativa profonda continua. Qual è al riguardo la posizione della Pontificia accademia per la vita?

La terapia del dolore è un obiettivo da perseguirsi con determinazione, anche se in passato non sono mancate ambiguità in ambito cattolico. Già Papa Pio XII aveva legittimato con chiarezza, distinguendola dall’eutanasia, la somministrazione di analgesici per alleviare dolori insopportabili non altrimenti trattabili, anche qualora, nella fase di morte imminente, fossero causa di un accorciamento della vita (cfr. Acta Apostolicae Sedis XLIX [1957],129- 147).

Parole che il papa ha attualizzato nel messaggio che ci ha inviato per il convegno sulle cure palliative del 2018: “Oggi, dopo molti anni di ricerca, l’accorciamento della vita non è più un effetto collaterale frequente, ma lo stesso interrogativo si ripropone con farmaci nuovi, che agiscono sullo stato di coscienza e rendono possibili diverse forme di sedazione. Il criterio etico non cambia, ma l’impiego di queste procedure richiede sempre un attento discernimento e molta prudenza. Esse sono infatti assai impegnative sia per gli ammalati, sia per i familiari, sia per i curanti: con la sedazione, soprattutto quando protratta e profonda, viene annullata quella dimensione relazionale e comunicativa che abbiamo visto essere cruciale nell’accompagnamento delle cure palliative. Essa risulta quindi sempre almeno in parte insoddisfacente, sicché va considerata come estremo rimedio, dopo aver esaminato e chiarito con attenzione le indicazioni”.

Qual è la nuova frontiera delle cure palliative perinatali e pediatriche, per un supporto ai genitori nei casi di gravi disabilità del nascituro o di sofferenze dei minori?  Quali iniziative di presenza, assistenza e accompagnamento si possono realizzare?

Le cure palliative perinatali hanno a che vedere con situazioni estremamente specifiche e limitate, dal punto di vista numerico. Tuttavia sono un campo di azione delicatissimo per la medicina e per la bioetica, perché si ha a che fare con le persone più vulnerabili per definizione: i bambini appena nati e in tanti casi con diagnosi problematiche già nel periodo di gestazione. Con i problemi collegati: le aspettative dei genitori, le possibilità di intervento, la collaborazione indispensabile tra medici e familiari e le ricadute emotive e psicologiche. È un terreno da esplorare, sempre alla luce del criterio di proporzionalità dei trattamenti.

Per questo abbiamo deciso un primo appuntamento di studio e di ricognizione dei protocolli esistenti. Il 1° dicembre, dalle 14 alle 17, ci interrogheremo su questo tema, insieme ad alcuni dei maggiori esperti internazionali. È un appuntamento aperto, in inglese, con traduzione simultanea in italiano. Il link, per chi è interessato, è questo:

https://us06web.zoom.us/webinar/register/WN_TKldaxncRNi0y_sQO3siyg

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