La convenzione ONU ha stabilito un nuovo paradigma per le persone con disabilità: la vita indipendente non è una concessione, perché a monte c’è un diritto e dunque bisogna non solo accogliere ma realizzare una nuova concreta postura che non sia concessoria. Approfondisce, quindi, il tema dell’accessibilità universale e ricorda quanto sia necessario che la Convenzione si cali nella realtà dell’ente locale e che si costruiscano atti a livello territoriali che valgano per tutti, senza ricorrere a delle correzioni secondarie.
Il modello sociale è stato un potente strumento non soltanto di politicizzazione della disabilità, ma anche di “sfondamento culturale”. Come afferma Tom Shakespeare in Disabilità e società, “in primo luogo, ha messo profondamente in discussione gli approcci convenzionali utilizzati per studiare la disabilità. Prima della sua comparsa, le scienze sociali (e la sociologia fra queste) si erano occupate della disabilità facendo proprio il quadro interpretativo del modello medico. La disabilità era considerata un deficit individuale, di natura biologica, per gestire il quale la società ricorreva alle istituzioni di welfare e in particolare ai servizi sociosanitari e riabilitativi. In buona sostanza, le scienze sociali si occupavano essenzialmente delle conseguenze sociali della disabilità senza però metterne in discussione i presupposti teorici. In secondo luogo, il modello sociale è stato l’’incubatore’ dei disability studies che, a partire dagli anni Novanta, si sono diffusi in ambito accademico, soprattutto nel mondo anglosassone […]. Al loro sviluppo hanno contribuito molteplici prospettive disciplinari (sociologia, politica sociale, economia, antropologia, filosofia, psicologia, pedagogia, storia, linguistica, letteratura, politica, media studies). Ad accomunarle è il precetto base del modello sociale: il rifiuto di considerare le menomazioni come il punto di partenza per l’analisi della disabilità e la focalizzazione sui processi mediante i quali la società produce l’esclusione delle persone disabili, nonché sugli interventi necessari per eliminarli […]. Il moltiplicarsi di corsi universitari e centri di ricerca, la nascita di riviste dedicate e l’accumularsi di una vasta letteratura scientifica hanno consolidato i disability studies come campo di ricerca a livello internazionale. In Italia, l’interesse per questo ambito di studi si è manifestato soltanto in tempi recenti, in modo particolare tra le discipline che annoverano la disabilità tra gli oggetti di studio privilegiati, come ad esempio la pedagogia. Sebbene nell’ultimo decennio i disability studies abbiano fatto breccia anche in altri settori disciplinari (la sociologia, la filosofia, il diritto, l’antropologia, la storia e l’economia), la loro diffusione nelle scienze sociali italiane è ancora oggi abbastanza limitata. Le ragioni sono molteplici. Tra queste vi è la perdurante influenza che la concezione medica individualista esercita sulle altre discipline, nonché il suo radicamento nel senso comune. Per lungo tempo, anche larga parte dello stesso mondo associativo della disabilità si è mostrato ‘impermeabile’ alla nuova visione, cosicché il vivace dibattito che da almeno due decenni si è sviluppato all’interno dei disability studies è rimasto confinato nella cerchia degli attivisti disabili più impegnati e in un ristretto manipolo di studiosi”.
Poi con Andrea Canevaro abbiamo cominciato nell’ambito formativo ad allargare la dimensione e ad includere la trasversalità delle discipline fino ad arrivare ad un percorso multidisciplinare che oggi si chiede soprattutto alla valutazione delle Commissioni nel decreto in via di attuazione seppur sperimentale. Noi dobbiamo arricchirci dei principi fondativi e di nuove linee di sviluppo di un ormai solido e riconosciuto statuto epistemologico della Pedagogia e della Didattica Speciale.
E dovremmo essere sensibilmente attenti alle giovani generazioni di ricercatori e alla costruzione di una cultura inclusiva e lanciare lo sguardo in avanti senza perdere quella cultura della Pedagogia Speciale per l’inclusione a cui non possiamo rinunciare sia nella ricerca e nella conferma della nostra identità scientifica, sia nella costruzione di relazioni autentiche con le diverse comunità scientifiche. È un dovere etico, è un diritto per le persone con disabilità e con difficoltà, è un atto di corresponsabilità, ancor più oggi nel contesto socio-culturale ed economico che stiamo vivendo. Come scrive la Società italiana di pedagogia speciale (SIPeS) nel suo volume in ricordo di Canevaro, “lungo la sua storia evolutiva — dalla nascita all’età anziana — il soggetto va supportato come co-protagonista attivo nel proprio cammino verso l’emancipazione. L’azione di cure o di cura va sintonizzata con la storia personale che è globale, non frammentaria o frammentabile; va integrata all’interno di un progetto evolutivo, che assume direzione di senso, se alla competenza tecnica l’operatore accompagna sia disponibilità alla relazione interpersonale con il soggetto e con la sua famiglia, sia una postura di condivisione delle risposte che via via si svelano”. Noi dobbiamo essere “il promotore assiduo di un dialogo scientifico, complesso e costruttivo, per la difesa e l’emancipazione degli umili, con la tensione infaticabile a perseguire ‘logiche del sentiero’, per il superamento delle ‘logiche dei confini’ chiusi, nell’interfaccia fra molteplici contesti/interlocutori: sistemi, istituzioni, saperi, professionisti, famiglie, persone. In campo disciplinare, questo comporta una netta presa di posizione, a favore dell’apertura di un confronto dialogico e propositivo permanente tra i saperi teorico-pratici chiamati in causa, più o meno direttamente, rispetto alla finalità educativa: umanistici, medico-riabilitativi, tecnologici e tutti gli altri possibili”.
Ecco perché le funzioni delle commissioni l’organizzazione territoriale, i costi del sostegno, il cd progetto di vita sono strumenti della politica che noi non possiamo non analizzare nel contesto in cui operiamo. A fronte dell’ampia condivisione del superamento della prospettiva centrata sulla diagnosi, dunque, appare di fatto ancora a oggi impossibile per le pratiche di inclusione, per molte tra le culture dei servizi e i modelli organizzativi, l’assunzione di una prospettiva autenticamente inclusiva e di un assetto basato sulla progettazione universale, che siano in grado di costituire la base per consentire la pratica effettiva della cittadinanza da parte di tutte le persone.
Il quadro normativo prefigurato dalla Legge 227/21 che, all’articolo 2 (comma 5), sottolinea come il fulcro della nuova prospettiva di inclusione sia «il Progetto di Vita individuale, personalizzato e partecipato» che non è un progetto riabilitativo ma è «diretto a realizzare gli obiettivi della persona con disabilità secondo i suoi desideri, le sue aspettative e le sue scelte». L’inclusione lavorativa porta con sé, dal punto di vista scientifico, una concreta possibilità di mettere in luce le contraddizioni di un immaginario che ancora spesso sembra non riuscire a prescindere dalla logica dei «contesti speciali». Affrontare seriamente il tema del lavoro per le persone con disabilità, nella riflessione scientifica, nell’accompagnamento delle politiche e nella formazione porta con sé interrogativi etici, politici e tecnici che non possono essere considerati in modo disgiunto gli uni dagli altri. Si tratta di un tema in cui emerge chiaramente che la dimensione tecnica e la dimensione etica dell’integrazione non sono — e non possono essere trattate — come disgiunte. A livello universitario dobbiamo impegnarci perché la figura del Diversity Manager e le sperimentazioni in atto siano sviluppate perché importanti e perché diventa anche questa una nuova frontiera dell’inclusione e del lavoro e del finanziamento privato nell’era della concreta responsabilità sociale dell’impresa.
Dobbiamo sviluppare e soprattutto applicare nei concorsi pubblici (e non solo) la questione della valutazione delle abilità residue.
“Costruire modelli di programmazione e intervento orientati alla piena inclusione significa oggi lavorare per promuovere un effettivo accesso ai diritti – scrive la SIPeS -. In conseguenza, appare necessario dotarsi di strumenti in grado di agire radicalmente in termini multidimensionali, considerando questa multidimensionalità come strutturale sia dei modelli di analisi che delle prassi di intervento alla luce della prospettiva di uguaglianza di condizioni di cittadinanza”.
Anche nella progettazione educativa e sociale, i tempi attuali, grazie ad alcune sollecitazioni normative, sono stati fecondissimi per una decisa evoluzione del modello medico a favore del modello antropologico del funzionamento umano proposto dall’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Salute e della Disabilità, OMS, 2001). La logica dell’ICF ci porta a valorizzare i contesti e quindi le diverse fonti o testimonianze. È utile avere confidenza con i diversi punti di vista e “visitare”, insieme al soggetto, le documentazioni che lo riguardano e che hanno la possibilità di diverse letture a seconda delle professioni e dei ruoli di ciascuno.
Se da un lato “mettere a fuoco, descrivere e definire in un progetto una intera esistenza è un processo psicopedagogico complesso da sostenere con adeguati strumenti – ricorda SIPeS -, dall’altra, pratiche di accompagnamento, culture dei servizi, modelli organizzativi faticano ancora ad assumere in modo uniforme quella prospettiva ecosistemica ampia che costituisce la base per consentire la pratica effettiva della cittadinanza da parte di tutte le persone”.
“Terreno fertile per lo sviluppo di tali modalità progettuali – prosegue la Società – sono servizi sociali e educativi che siano in grado di agire sistematicamente nel e sul mondo di tutti, con il fine primario di garantire l’accesso. L’accesso, la dimensione primaria della progettazione, diventa la direttrice che sostituisce la diagnosi nella costruzione degli interventi”.
L’inclusione non si ferma, cammina sempre e il finanziamento del sistema socio sanitario deve obbligatoriamente cambiare non certo nei termini della totale sicurezza sociale pubblica e obbligatoria ma condividendo un progetto di adesione ai bisogni per come si presentano nella realtà perché i grandi apparati amministrativi NON sono in grado di garantire tutte le esigenze e dunque garantire l’essenziale e favorire il dispiegarsi delle energie vitali della società e fare in modo che il welfare sia in condizione di drenare risorse private per assolvere le finalità sociali arricchendo i mercati finanziari gli investimenti la circolazione di risorse e capitali. Bisogna riequilibrare la spesa a copertura dei rischi tradizionali come la vecchiaia e dirottarla su formazione, inclusione, povertà.