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Educazione

Dilemmi e soluzioni alla fuga degli insegnanti dalla scuola

Dal 2015 al 2021 la retribuzione media di un insegnante di scuola secondaria di I grado è aumentata del 6% nell’area OCSE, ma solo dell’1% in Italia. E poi ci chiediamo perché è in corso un esodo dalla scuola italiana. L'intervento a cura di Orazio Niceforo della Fondazione Kuliscioff 

 

Non è un fenomeno solo italiano. Negli USA, che pure hanno un sistema scolastico molto più decentrato e flessibile del nostro, prosegue la fuga degli insegnanti dalle scuole, e molti Stati fanno fatica a rimediare ai vuoti di personale registrati nel periodo della pandemia: almeno 300.000 dimissionari dal febbraio 2020 a maggio 2022, secondo la National Education Association, hanno contribuito ad aumentare il fenomeno della Great Resignation (dimissioni di massa), che peraltro tocca anche altre categorie di lavoratori, ma che nella scuola assume dimensioni drammatiche.

Anche in Italia mancano insegnanti, soprattutto quelli di matematica e di discipline tecniche, in particolare nelle scuole del Nord, che stentano a trovare supplenti anche ricorrendo alle domande cosiddette MAD (Messa A Disposizione), riservate ad aspiranti non inclusi in alcuna graduatoria della stessa o di altra provincia, spesso studenti universitari o persone che fanno un altro lavoro e non hanno mai insegnato.

Qual è la ragione di questa fuga, e della carenza di aspiranti insegnanti nelle citate cattedre? Molte sono le ragioni addotte (dal burn out alla caduta del prestigio sociale dei docenti alla mancanza di una adeguata formazione in servizio), ma una sembra prevalere su tutte: il basso livello degli stipendi, evidenziato dal Report dell’Ocse Education at a Glance 2022 (dal 2015 al 2021 la retribuzione media di un insegnante di scuola secondaria di I grado è aumentata del 6% nell’area OCSE, ma solo dell’1% in Italia). Anche il sondaggio realizzato da Tuttoscuola su cosa dovrebbe fare il nuovo governo mette al primo posto la voce “Aumentare lo stipendio ai docenti” (62%), che stacca nettamente le altre due (“Riconoscere la professionalità e il ruolo sociale del docente” al 24% e “Contribuire allo sviluppo di una nuova didattica concreta e operativa” al 13%).

Ma è immaginabile che l’attuale governo riesca a trovare le cospicue coperture necessarie (secondo alcuni studi servirebbero almeno 300 euro netti al mese per allineare gli stipendi dei docenti a quelli medi dei laureati impiegati in altri settori lavorativi, e almeno il doppio per raggiungere quelli europei), invertendo la tendenza a fuggire dalla scuola? È da escludere. E dunque i tempi sono più che maturi per mettere in cantiere l’alternativa della differenziazione degli stipendi. Ma il dibattito sulla questione, al quale non si sottrae lo stesso ministro Valditara, è aperto e segnato da importanti dilemmi. Vediamo quali.

1. Differenziare gli stipendi per merito o per professionalità

Un primo dilemma riguarda il criterio in base al quale gli stipendi dovrebbero essere differenziati: il merito (la qualità del lavoro svolto dal singolo docente, a parità di tutte le altre condizioni) o la professionalità (le competenze acquisite e certificate)? Dilemma storico. La prima strada fu scelta nell’anno 2000 dal ministro Luigi Berlinguer, reduce da quattro anni di successi politici e parlamentari, con il sostegno iniziale di tutti i sindacati (compreso l’autonomo SNALS), ma si scontrò con il rifiuto di massa dei docenti a farsi valutare (tramite il detestato “concorsone”) per essere distinti in due categorie: un quinto di “bravi”, come diceva lo stesso Berlinguer, da premiare con aumenti fino a un quarto dello stipendio, e quattro quinti di meno bravi, fermi al palo o quasi.

I docenti, sorprendendo i sindacati, realizzarono un imponente sciopero spontaneo con manifestazioni di strada, e respinsero la differenziazione chiedendo in sostanza aumenti uguali per tutti. La consistenza della protesta, a un anno di distanza dalle elezioni del 2001, indusse Berlinguer, esponente di punta dei DS, dimessosi nell’aprile del 2000 insieme agli altri ministri del secondo governo D’Alema, a non rientrare nel nuovo governo Amato al fine di arginare le conseguenze politiche del malcontento della categoria.

Un secondo tentativo di differenziare gli stipendi sulla base del merito individuale fu quello contenuto nella renziana “Buona Scuola” (legge 107/2015, art. 129), ma la discrezionalità dell’assegnazione dei premi, affidata al monocratico dirigente scolastico disegnato da quella riforma, fu anch’essa respinta dagli insegnanti con un ancora più massiccio sciopero, questa volta promosso unitariamente da tutti i sindacati il 5 maggio 2015, un mese prima dell’approvazione della legge. Anche in questo caso l’ostilità dei docenti ebbe conseguenze politiche perché contribuì l’anno dopo alla sconfitta del referendum costituzionale voluto da Renzi (4 dicembre 2016) e alla mancata conferma di Stefania Giannini, unico ministro del dimissionario governo Renzi a non essere confermata nel successivo governo Gentiloni, sostituita dall’ex sindacalista Cgil Valeria Fedeli che congelò di fatto l’applicazione dell’articolo 129 della legge.

L’alternativa alla differenziazione degli stipendi per merito è sempre stata, fin dagli anni Ottanta dello scorso secolo, la diversificazione, per legge o per contratto, delle figure e dei profili professionali dei docenti, alla quale collegare la differenziazione degli stipendi. Un modello ben definito, dal punto di vista teorico, da esperti e studiosi, ma sostenuto da una esigua minoranza dell’associazionismo professionale e frontalmente respinto dai sindacati. Nei primi dieci anni del secolo corrente non sono mancati anche tentativi di ragionare sul tema da parte dell’ala più dialogante dei sindacati e del Ministero della PI, e a livello parlamentare per iniziativa dell’allora presidente della commissione Cultura della Camera Valentina Aprea (2008-2012), che è tornata alla carica anche nel corso dell’ultima legislatura (1018-2022) ma senza esiti concreti.

Ora, col governo Meloni e il ministro Valditara, circolano nuove ipotesi di differenziazione, e nuovi dilemmi. Vediamoli.

2. Differenziare gli stipendi per materia insegnata o per costo della vita

Prima domanda: che cosa fare se non si trovano ingegneri o chimici, ma anche matematici o architetti, disposti a fare gli insegnanti? In una economia di mercato la soluzione sarebbe semplice: basta pagarli di più. Ma in Italia il contratto nazionale della scuola non prevede questa possibilità e non c’è alcuna differenza tra gli insegnanti delle diverse classi di concorso.

Seconda domanda: che cosa fare se sono pochi gli insegnanti residenti nel Mezzogiorno disposti a trasferirsi al Nord, dove – soprattutto nelle grandi città ­– il costo della vita è molto più alto che nel Sud e nelle Isole? Anche qui la risposta sarebbe semplice se le scuole disponessero di una vera autonomia finanziaria, e potessero integrare lo stipendio base dei docenti. Ma quel tipo di autonomia è escluso dagli attuali ordinamenti e anche dal contratto nazionale, che prevede solo un modesto fondo integrativo (il FIS) legato a determinate prestazioni del personale, e non al costo della vita nel territorio dove la scuola è collocata.

Finora non è stata data risposta a queste due domande, e le diverse ipotesi di differenziazione degli stipendi, riaffacciatesi in questi giorni nel dibattito pubblico apertosi a seguito delle recenti dichiarazioni del ministro Valditara, sono state condannate dai sindacati, con la timida eccezione dell’ANP, che però rappresenta i presidi e non gli insegnanti. Così la Grande Macchina della scuola italiana continua a funzionare (male) per forza di inerzia, come ha fatto per decenni, senza affrontare i problemi derivanti dalla crescente scarsa attrattività della professione di insegnante, dovuta anche alla mancata soluzione delle questioni indicate.

Una via d’uscita, almeno per quanto riguarda l’integrazione degli stipendi base, potrebbe essere fornita dall’autonomia regionale differenziata, un provvedimento previsto nel programma unitario della coalizione che ha vinto le elezioni e il cui iter legislativo sarà avviato dal Consiglio dei ministri il giorno 2 febbraio, come ha assicurato Matteo Salvini nella puntata di Otto e Mezzo dello scorso 26 gennaio rispondendo a una precisa domanda di Lilly Gruber. Vediamo come potrebbe funzionare, ammesso che vada avanti.

3. Differenziare gli stipendi a livello regionale con contrattazione integrativa

Nello scorso mese di novembre 2022, il neonominato Ministro per gli Affari regionali e le autonomie, Roberto Calderoli, ha presentato alle regioni italiane la bozza di disegno di legge “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”, un provvedimento che, come accennato, dovrebbe essere approvato dal Consiglio dei ministri del prossimo 2 febbraio. Una data scelta, non a caso, a ridosso delle elezioni regionali in Lombardia (12 febbraio), guidata dal leghista Attilio Fontana.

Il citato terzo comma dell’articolo 116, inserito nella Costituzione dalla riforma costituzionale del 2001, voluta dal centro-sinistra e confermata da referendum popolare, dispone quanto segue: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata”.

Verrebbero così estese ad altre Regioni le Intese intervenute con le tre (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna) che le hanno già sottoscritte e che riguardano anche la scuola, con esclusione delle “norme generali sull’istruzione”, di competenza esclusiva dello Stato (Art. 117: “Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: […] istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale”). Ma, specifica l’art. 117, “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.

Questo significa che, ferma restando la competenza esclusiva dello Stato sulle norme generali (ordinamenti, titoli, durata degli studi) nelle materie amministrative sarebbero le Regioni ad avere potestà legislativa primaria. Negli accordi preliminari stabiliti dalle tre Regioni con lo Stato si prevede, tra l’altro, quanto segue: “In particolare, in materia di istruzione, gli accordi preliminari prevedono una maggiore autonomia delle Regioni:

  • nella programmazione dell’offerta di istruzione regionale, definendo la relativa dotazione dell’organico e l’attribuzione alle autonomie scolastiche attraverso un Piano pluriennale adottato d’intesa con l’Ufficio Scolastico Regionale, fermo restando l’assetto ordinamentale statale dei percorsi di istruzione e delle relative dotazioni organiche;
  • nell’integrazione degli organici con posti in deroga ai sensi della normativa in vigore in tema di contratti a tempo determinato attraverso la costituzione di un fondo regionale”.

Una formulazione abbastanza ampia da consentire in prospettiva che accanto alla contrattazione nazionale ce ne sia una integrativa, a livello regionale, che potrebbe avere anche contenuti economici, magari nella forma di contributi alle singole scuole utilizzabili anche per incrementare i magri stipendi degli insegnanti. Sarebbe complicato per i sindacati, nella loro articolazione regionale, rinunciare a svolgere un ruolo contrattuale su una materia di questo genere. Forse è anche per questo che i sindacati nazionali alzano barricate preventive.

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