Anche se molto spesso in maniera pretestuosa, le università online vengono oggi criticate dai difensori del vecchio mondo accademico sulla base della tesi che le lezioni in presenza sarebbero molto migliori sul piano qualitativo e che un insegnamento affidato a registrazioni delineerebbe una didattica carente da vari punti di vista.
Nonostante l’ostilità verso gli atenei telematici appaia dettata soprattutto da un mix di opportunismo (la difesa dei posti e dei privilegi delle università statali) e ideologia (il timore che il progressismo veda svanire la propria ben consolidata egemonia sulla cultura), può essere comunque opportuno investigare quanto siano fondate le considerazioni di chi contesta il valore di un insegnamento impartito utilizzando metodologie telematiche, e non facendo ricorso alle tradizionali lezioni orali.
Pur senza negare i pregi del rapporto interpersonale, è bene avere presente che i corsi registrati (asincroni) hanno i loro punti di forza; e non su aspetti di poco conto.
Innanzi tutto, la registrazione di un corso costringe il docente a una disciplina che non sempre ritroviamo nelle lezioni tradizionali. Quanti insegnano in aula possono spesso perdersi in tutta una serie di parentesi e avviare lunghi dialoghi con gli studenti che, in qualche caso, risultano dispersivi. La lezione asincrona, invece, è sempre uno specifico tassello di uno schema lineare, di un percorso didattico prima pensato e poi costruito, il quale deve condurre lo studente a raggiungere ben precise acquisizioni. Poiché la lezione registrata non è effimera, ma invece rimane disponibile anche anni, essa inoltre obbliga il docente a una maggiore cura. Il docente è insomma chiamato a sviluppare un’analisi concatenata, consequenziale, volta a far comprendere al meglio la materia che tratta. Al fine di aiutare lo studente nello studio, le lezioni asincrone sono insomma immaginate quasi fossero i capitoli di un volume (e in genere al docente è chiesto pure di fornire una descrizione scritta, in termini sintetici, di ogni lezione).
Essendo pensate per un uditore tipico che tende a coincidere con lo studente-lavoratore, il cui tempo ovviamente è molto prezioso, le lezioni asincrone devono essere comprensibili ed efficaci, ben calibrate, non dispersive. In questo senso, in linea di massima c’è da attendersi una qualità didattica superiore da parte delle lezioni online rispetto a quelle in presenza.
Si perde qualcosa? Senza dubbio. In effetti, in molte circostanze lo studente eccellente non ha bisogno di un professore che l’introduca pagina per pagina ai contenuti che deve preparare per l’esame. Può darsi allora che egli tragga vantaggio da lezioni “alte”, sganciate dalla prova finale e volte a problematizzare con grande libertà questo o quell’aspetto della materia, fuori da schemi rigidi. Da tale considerazione si può derivare l’idea che probabilmente per uno studente top la didattica tradizionale può anche essere preferibile, ma per la maggior parte degli studenti è invece assai più adatta la metodologia (più chiara ed esplicativa) delle registrazioni.
Se quanto detto ha un fondamento, non si può dire che in assoluto un metodo sia superiore all’altro, perché alla fine molto dipende dai destinatari degli insegnamenti.
Come detto, però, c’è molto di pretestuoso nelle accuse indirizzate dagli atenei di Stato (e dalla Crui, la Conferenza dei rettori delle università in presenza) alle università telematiche. Quando si chiede, ad esempio, che il rapporto numerico tra docenti assunti dall’ateneo e studenti sia nelle università online simile a quello delle università in presenza, si finge di ignorare due cose: in primo luogo che una cosa è parlare in un’aula davanti a trenta persone e altra cosa è registrare per un numero teoricamente illimitato di studenti; in secondo luogo che nelle telematiche ha un ruolo cruciale il tutor, che fa da collegamento tra il docente e lo studente.
Ugualmente insensato è pretendere d’imporre una certa quantità di lezioni in streaming. In effetti, se nemmeno gli studenti delle università tradizionali hanno obbligo di frequenza (e se le università tradizionali sono soprattutto università “in assenza”, dato che i dati Cineca evidenziano che dopo il primo anno i non frequentanti passano al 70% e negli anni successivi addirittura al 90%), non si capisce perché si dovrebbero penalizzare gli studenti-lavoratori delle telematiche. Oltre a ciò, la scelta strategica dei video registrati nasce dalla necessità di soddisfare le esigenze di chi lavora e deve poter scegliere liberamente i tempi e i modi dello studio.
In questo senso, sarebbe irragionevole un’analisi delle questioni didattiche che ignorasse il vissuto degli studenti, e quindi anche di quei lavoratori che rappresentano una quota ben più che maggioritaria di quanti s’iscrivono agli atenei telematici.
Per una serie di ragioni didattiche e anche organizzative (pratiche ed economiche, che fanno i conti con la scarsità del tempo e delle risorse), si può invece sostenere che molti corsi di studio trarrebbero notevoli vantaggi da un’impostazione ibrida: che talvolta ricorra alle lezioni in presenza e in altre circostanze, invece, a quelle registrate oppure in streaming.
Il guaio è che questa soluzione intermedia è spesso ostacolata dall’ordinamento. Le università telematiche non possono tenere corsi in presenza, ma alcune delle stesse università in presenza (è il caso della Link) sono talvolta accusate di essere università telematiche sotto mentite spoglie, dal momento che fanno registrare tutte le lezioni e le rendono disponibili a ogni studente. Secondo i difensori dell’esistente, però, ogni “ibridazione” tradirebbe lo spirito di una normativa che, quando ha permesso l’accreditamento degli atenei telematici, non ha inteso liberalizzare l’accademia, ma soltanto creare un secondo ambito universitario, sottoposto a un’infinità di regole e di vincoli.
In Italia l’alta educazione avrà allora un futuro se le logiche della libertà di impresa (per le private) e di organizzazione autonoma (per quelle di Stato) prevarrà sul dirigismo centralista oggi imperante, che vede un piccolo gruppo di politici e burocrati stabilire che nei prossimi tre anni non si potranno creare corsi in Scienze politiche oppure in Economia, che le lezioni vanno impartite in questo modo e non in quello, e via dicendo.
Nessuno può sapere con certezza in che modo i docenti X e Y possono soddisfare al meglio le esigenze degli studenti A e B. Soltanto un ordine di libertà che metta da parte la programmazione universitaria di Stato (che in altri termini restauri la libertà accademica), superi il valore legale dei titoli (come già chiedeva Luigi Einaudi nel 1947) e rigetti ogni artificiosa distinzione tra atenei in presenza e online può aiutarci a ricercare le soluzioni migliori: al di fuori di ogni presunzione pianificatrice e di ogni imposizione autoritaria.