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educazione digitale

Che senso ha parlare di educazione digitale?

L’analisi del professore Enrico Nardelli dell'università di Roma "Tor Vergata", presidente di “Informatics Europe” e direttore del Laboratorio Nazionale “Informatica e Scuola” del CINI

 

Mi è stato segnalato il recente articolo “La preistoria digitale” di Massimo Mantellini, uno dei pionieri dell’utilizzo degli ambienti digitali e degli opinionisti più ascoltati in tema di cultura digitale. Quindi certamente una persona che conosce questo mondo fino, appunto, dalla preistoria. Sono però sobbalzato sulla sedia quando ho letto questo passaggio: «L’educazione digitale non funziona. E non funziona non perché non sia un’idea opportuna necessaria e ragionevole, al contrario, ma perché i tempi di una sua eventuale ricaduta nelle consuetudini sociali dei cittadini (di tutti i cittadini) sono incompatibili con la velocità con la quale, dall’altro lato, la tecnologia impone sé stessa».

Certamente, come afferma Mantellini, la tecnologia evolve con una velocità che è incompatibile con l’evoluzione delle consuetudini sociali. Ma al tempo stesso devo sviluppare alcune riflessioni critiche sull’uso del termine “educazione digitale”, purtroppo spesso usato in Italia e in Europa, che è del tutto incongruo come obiettivo.

Lo è prima di tutto linguisticamente, perché è un calco scorretto dall’inglese education, che però vuol dire “istruzione” e non “educazione”.

Poi è male indirizzato, perché è almeno dagli inizi del “secolo breve” che sappiamo che la tecnologia si evolve più rapidamente della società, e proprio per questo tutti i sistemi di istruzione del mondo occidentale hanno ritenuto opportuno e necessario organizzare i loro sforzi attorno all’insegnamento dei princìpi soggiacenti alla tecnologia, allo scopo di consentire alle persone di ottenere una formazione duratura. Poi, certo, abbiamo anche le scuole di tipo tecnico, che hanno però un orizzonte temporale più limitato.

Infine, è impreciso contenutisticamente, perché parlare di “digitale” implica parlare di un tutto indistinto in cui non si coglie ciò che è rilevante, cioè che tutte le tecnologie e i dispositivi digitali sono basati sul linguaggio dell’Informatica. Ma se non si conosce questo linguaggio, tutto diventa una “diavoleria” incomprensibile. Così come se non si conosce matematica e fisica e chimica ogni macchina o dispositivo industriale è magia. E se non si conosce matematica e biologia e chimica ogni essere vivente è magia (poi la vita è ben più di un semplice meccanismo, ma non è questo il punto). Se si vogliono far capire le macchine digitali bisogna insegnare l’informatica (ho scritto un intero libro su questo tema: “La rivoluzione informatica”).

È l’informatica che è un linguaggio, così come lo è la matematica, è l’informatica che deve essere insegnata, senza perseguire una fantomatica e irragionevole “educazione digitale”. Allo stesso modo in cui, se si vuole elevare il livello di cultura scientifica, sostenere che serve l’educazione scientifica non vuol dire niente in pratica (e non funziona) perché è un obiettivo che si può raggiungere solo se si insegnano le specifiche discipline scientifiche e i loro specifici linguaggi.

Quindi è vero che “L’educazione digitale non funziona” ma perché è un obiettivo senza senso. Tanti opinionisti in Italia e in Europa hanno purtroppo scritto in lungo e in largo di digitale senza capire molto di cosa andava fatto per preparare le persone a comprenderlo e il nostro Paese e l’Europa hanno perso decenni.

I concetti dell’informatica sono ormai stabili da quasi un secolo e spiegano il funzionamento di tutte le tecnologie digitali, anche quelle dell’intelligenza artificiale, anche quelle quantistiche, solo per usare i due termini alla moda di cui tutti adesso parlano. Però serve tempo per capirli ed assimilarli. Quanto tempo ci mettono i ragazzi a scuola per capire il significato della matematica e delle leggi di fisica, chimica e biologia che spiegano la componente scientifico-tecnologica del mondo intorno a noi? Almeno i 10 anni dell’istruzione obbligatoria, e bastano appena. Certo, se però poi qualche opinionista o politico pensa che basti fare un po’ di coding o imparare un po’ di prompt per l’IA generativa per padroneggiare “il linguaggio del digitale”, poi è chiaro che le cose non funzionano.

Negli Stati Uniti si parla solo di computer science education cioè di “insegnamento dell’informatica” fin dall’inizio della scuola. Non hanno mai pensato di parlare di digital education, e forse negli Usa qualcuno la conosce la valenza strategica della tecnologia digitale, no? Che ne dite?

In Europa sono serviti 10 anni per convincere la Commissione Europea a preparare una risoluzione che il Parlamento Europeo ha poi approvato in cui finalmente si parla di “insegnamento dell’informatica”. In Italia, dopo 12 anni di attività del progetto Programma il Futuro, nelle nuove Indicazioni Nazionali per il primo ciclo dell’istruzione scolastica si parla finalmente di insegnamento dell’informatica.

Sono tanti anni che faccio divulgazione sull’informatica e l’importanza del suo insegnamento per preparare i cittadini alla società digitale. A chi volesse iniziare a capire qualcosa di più di questa disciplina raccomando di iniziare con la serie “A passeggio con l’informatica” che ho scritto per l’Osservatorio sullo Stato Digitale dell’Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione.

(I lettori interessati potranno dialogare con l’autore, a partire dal terzo giorno successivo alla pubblicazione, su questo blog interdisciplinare.)

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