Qualche anno fa ho declinato l’offerta di andare a lavorare a Repubblica, con il gruppo GEDI ho avuto frequentazioni e abboccamenti per oltre un decennio, da una prima offerta per l’Espresso, alla fine senza mai concretizzare nulla.
Dunque mi sento abbastanza distaccato da guardare con lucidità quello che sta succedendo ma in qualche modo anche partecipe (tra l’altro, il quotidiano Domani che ho fondato nel 2020, era un derivato delle vicende GEDI).
Da questa prospettiva, proprio non capisco la protesta dei giornalisti del gruppo contro la vendita dell’azienda alla greca Antenna del miliardario Theodore M. Kyriakou. Le alternative erano – e sono – tutte peggiori.
La reazione alle notizie sulla vendita dimostra soltanto che i giornalisti italiani sono talmente prigionieri della narrazione del proprio declino da non riuscire a valutare le opzioni realistiche a disposizione.
Scatta un riflesso pavloviano di dare tutte le colpe agli editori e chiedere aiuti pubblici – a questo governo, peraltro – che è rivelatorio soltanto della totale perdita di autostima della categoria anche nei suoi spazi più privilegiati quali sono ancora le testate del gruppo GEDI (rispetto a quello che c’è fuori, non ai fasti del passato).
L’azionista
Dopo discutiamo della crisi di GEDI, ma per il momento stiamo al punto oggetto della questione urgente: l’azionista. Onestamente, mi sfugge perché il misterioso Theodore M. Kyriakou dovrebbe essere più problematico di John Elkann.
E’ straniero? Antenna è un gruppo greco? Oggi GEDI è controllata da Exor che è una holding finanziaria con sede in Olanda per ragioni di peso dei diritti di voto. Dunque, già ora GEDI è in mani straniere, diciamo così.
Sappiamo poco degli interessi industriali di Kyriakou, che viene da una famiglia di armatori. Ma sappiamo tutto di quelli di John Elkann: qualunque editore al mondo avrà meno punti di contatto tra i propri business e gli argomenti di cui si occupano i giornalisti.
Elkann non solo è presidente e azionista di peso di Stellantis, l’ex FIAT, dunque coinvolto in tutte le vicende industriali del settore auto e in tutte le questioni di politica industriale di cui i giornali devono scrivere (dagli incentivi alle auto elettriche alle scelte europee sulla fine della vendita dei motori a scoppio).
Ma questo è il meno. Exor ha investimenti nel settore della moda – che è uno dei pochi grandi investitori rimasti sui media – ma anche nell’eolico, così come nelle tecnologie per il trasporto di petrolio e gas. E poi la Juventus, ovviamente, oltre alla Ferrari.
Elkann siede anche nel board di META, l’azienda che controlla Facebook e Instagram, che è forse la maggiore responsabile del disastro dei media tradizionali ai quali ha sottratto la pubblicità. E poi Elkann è in ottimi rapporti con OpenAI di Sam Altman, altra minaccia che incombe sui media.
Praticamente ogni sezione del giornale è costretta a confrontarsi ogni giorno con gli interessi dell’editore, e i manager che devono pensare alla strategia quanto risentono degli altri piani dell’editore?
Per quello che ne sappiamo, Kyriakou crea molti meno problemi potenziali.
E non mi riferisco alle pressioni dell’editore: il conflitto di interessi è una condizione oggettiva che prescinde da come i singoli editori lo interpretano. Restringe il perimetro di autonomia giornalistica con la sua sola esistenza.
Dubito che John Elkann abbia mai chiamato i giornalisti di Repubblica per indicare cosa fare. Sono i direttori, i capiredattori, i capiservizio che sanno di muoversi su un terreno delicato, che si tratti di raccontare le sconfitte della Juventus, i disastri sportivi della Ferrari o le prospettive di OpenAI. O se, invece, c’è da celebrare i risultati economici di una controllata di Exor o raccontare le interazioni dell’azionista con la politica o con la giustizia.
In questi anni, Repubblica – intesa come testata, non come azienda – ha ampiamente dimostrato di non riuscire a gestire questa situazione: il gruppo giornalistico che oggi protesta per difendere la propria dipendenza l’ha persa molto tempo fa.
A titolo di esempio – la parte per il tutto – vale la pena ricordare un titolo del 2020, che celebrava un aiuto pubblico all’azienda controllata dall’editore. Lo ha dettato John Elkann quel titolo? O, cosa molto più probabile, è stato prodotto da una catena di comando che ha interiorizzato il conflitto di interessi e le presunte aspettative dell’editore?
Nel 2024 l’allora direttore Maurizio Molinari è perfino stato sfiduciato dalla redazione per aver mandato al macero 100.000 copie di Affari & Finanza per la titolazione di un articolo sui rapporti d’affari tra Italia e Francia, due dei Paesi di attività di Elkann.
E poi c’è stato il caso degli articoli per l’Italia Tech Week con articoli pagati dalle aziende… insomma, gli anni recenti di Repubblica possono essere ricordati per molte cose, ma non come un modello di strenua difesa dell’autonomia giornalistica.
Poi c’è la questione della linea politica, che nel caso di Repubblica – ma anche La Stampa nelle sue fasi alterne – è di opposizione al centrodestra e collateralismo al Pd. Ammesso che sia un asset da difendere, vista la sua prevedibilità, anch’essa è stata travolta dai conflitti di interesse di John Elkann.
Il governo Meloni, nel suo approccio spregiudicato ai media, ha chiaramente perseguitato John Elkann per mesi in quanto editore di Repubblica e Stampa, non perché l’esecutivo avesse una qualunque idea sul settore dell’auto.
La linea del governo sull’automotive è diversa da quella di Stellantis – che non chiede il rinvio del bando al motore a scoppio – ed è priva di ogni chiarezza strategica sul rapporto con i cinesi (vogliamo farli produrre qua? impedire le importazioni? rallentare l’adozione dell’elettrico? boh).
Meloni e i suoi si sono accaniti contro Elkann in quanto esponente di quella élite globale che loro avversano (e dalla quale però cercano legittimazione): i tuoi giornali ci attaccano? E noi ti colpiamo sull’auto.
Poi, a un certo punto, sono cambiati i direttori di Stampa e Repubblica – via Massimo Giannini e Maurizio Molinari – e il governo si è scordato di Elkann.
A Roma, a Repubblica, è arrivato il trasversale Mario Orfeo, abituato dalla sua lunga esperienza RAI a smussare i conflitti, a costruire reti di fiducia e consenso.
A Torino Massimo Giannini ha lasciato il posto ad Andrea Malaguti che aveva il mandato di rendere La Stampa un po’ più moderata e di nuovo più torinese, non l’ha certo snaturata ma i toni sono meno netti e le polemiche più rare.
Kyriakou è di destra e ha simpatie trumpiane?
Vale la pena ricordare ai giornalisti in protesta che Repubblica ha avuto per anni come riferimento sul racconto dell’America Federico Rampini – che di Trump sembra condividere ogni idea anche se non i toni – e che ha avuto come direttore Maurizio Molinari, che certo non è vicino alle frange più radicali dei Democratici e che con la redazione ha avuto varie frizioni per la linea su Israele, dopo il 7 ottobre 2023.
Un giornale che si vuole progressista può avere sfumature e distinguo sulle due vicende più divisive di questo tempo, la svolta autoritaria degli Stati Uniti e il genocidio di Gaza?
Quanto al timore delle preferenze politiche dell’editore, John Elkann è parte di quella business community attiva in America che ha scelto di convivere con Donald Trump omaggiando la sua autorità, invece che cercando di arginare le sue derive.
A giugno Elkann ha portato una rappresentanza della Juventus nello Studio Ovale della Casa Bianca e ha regalato a Trump la maglia numero 47 (è il quarantesettesimo presidente, dopo essere stato anche il quarantacinquesimo).
Qualunque sia l’inclinazione ideologica di Kyriakou, sarà difficile eguagliare questo tipo di pubblico omaggio al leader della destra globale che vuole distruggere l’Europa.
Leonardo Maria Del Vecchio, che è arrivato in ritardo con un’offerta per GEDI da 140 milioni, era ed è un’alternativa valida? Qualcuno, anche nella galassia di Repubblica, sembra pensarla così: italiano, senza pretesa di fare profitti subito.
Sarebbe stato (e sarebbe) un disastro. Del Vecchio ha tutti i problemi di Elkann e nessuna delle sue qualità: è anche lui un erede di un grande vecchio del capitalismo italiano, Leonardo Del Vecchio senior, e ha i suoi conflitti di interesse inevitabili.
E’ uno degli azionisti di Delfin, la holding al centro delle manovre per la scalata di Monte Paschi a Mediobanca e Generali, ha le sue attività autonome, dalla produzione cinematografica con Leone Film Group alle energy drink con Fedez. E Del Vecchio poi ha la tendenza a trovarsi in parecchie storie di cronaca, vedi le vicende degli spioni abusivi di Equalize.
A differenza di Elkann, che da vent’anni è ai vertici di aziende di rilievo globale, Del Vecchio ha ancora tutto da dimostrare come manager.
Ma veramente qualcuno pensa che sia uno a cui affidare il rilancio di una (ex) testata identitaria del centrosinistra italiano?
Il modello Cairo
Nel 2016 Urbano Cairo ha conquistato il Corriere della Sera contro Diego Della Valle e l’ennesima cordata del cosiddetto “salotto buono” che sosteneva di difendere il prestigio di via Solferino ma voleva solo usare il giornale come strumento e termometro della propria influenza.
All’epoca, le obiezioni contro Cairo erano analoghe a quelle nei confronti di Kyriakou per Repubblica: è la fine di un’epoca, sarà il disastro, questo “piccolo Berlusconi” distruggerà il giornale più importante d’Italia.
Cairo l’ha risanato e ha stravinto la competizione con Repubblica. Con la direzione ormai decennale di Luciano Fontana, Cairo ha sviluppato un prodotto con poca retorica e molta sostanza: una strategia chiara – paywall digitale rigido – e un giornale senza fronzoli, ma completo.
Provate a leggere il sito o l’edizione cartacea (o replica digitale) di Corriere e di Repubblica: la differenza fondamentale è che il Corriere si capisce, Repubblica no.
Online il sito di Repubblica continua a evolversi in una via di mezzo tra Instagram, TikTok e le pagine di raccomandazione di quei servizi come Outbrain o Taboola che fanno rimpiangere gli anni della “colonna infame” con le notizie clickbait: la pubblicità è ovunque, i banner invadono, le notizie sono nascoste, i commenti non si vedono. La qualità dei contenuti è quantomeno ondivaga.
Il Corriere è più lineare, decifrabile. Su carta l’impaginazione e la gerarchia dei contenuti sono chiare. Repubblica è un vortice confuso di titoli urlati, retroscena senza notizie e pezzi di cronaca incomprensibili, reportage impressionistici.
La cultura, un tempo punto di forza del giornale, è considerata ormai irrilevante anche dagli editori che pure, per abitudine, si dannano per ottenere segnalazioni di libri in pagine che non legge davvero più nessuno.
Per ragioni imperscrutabili, Repubblica non riesce neppure a valorizzare il proprio fenomenale archivio (come ha fatto a suo tempo l’Espresso con splendidi volumi). Celebra un mito fondativo di sé stessa del quale, però, il lettore non fa più esperienza da anni.
In questi giorni, chi prova a spiegare che Repubblica è un patrimonio del Paese si trova a citare Eugenio Scalfari (morto), Carlo Caracciolo (morto), Michele Serra (71 anni), Natalia Aspesi (96 anni). E poi?
Ci sono giornalisti bravi, certo, ma il gruppo nel suo insieme è davvero ancora una colonna del dibattito pubblico italiano? O della coscienza del centrosinistra?
Al Corriere la temuta devastazione di Cairo non c’è stata: certo, all’editore si può rimproverare qualche vanità (Cairo è citato in molti pezzi economici o di costume, le pagine sportive trattano il Torino come una squadra da alta classifica), e ci sono ogni giorno interviste molto pop che rivelano l’anima da editore di settimanali di gossip di Cairo. Ma sono inezie, le interviste peraltro non sono male.
Il Corriere ha una linea sempre filogovernativa con Cairo, ma non è che in passato sia stato mai davvero di opposizione.
Però – anche questo è un indizio utile per i colleghi preoccupati di Repubblica – Cairo riesce a essere sia l’editore di un grande giornale che legittima e supporta Giorgia Meloni sia della televisione più programmaticamente ostile, cioè LA7: un editore puro o quasi, quale Cairo è, può garantire un’offerta editoriale più variegata di uno impuro.
Perché in un’ottica editoriale ha senso coprire vari segmenti di pubblico, mentre per imprenditori che hanno gli interessi principali fuori dai media, ogni testata deve stare all’interno del medesimo perimetro di linea politica e di attenzione alle esigenze dell’editore.
Kyriakou può essere il Cairo di Repubblica? Non è detto, ma soltanto perché non è affatto sicuro che in Italia ci sia ancora spazio per due quotidiani generalisti che garantiscono copertura e analisi delle notizie.
In un ecosistema mediatico sempre più frammentato, una nicchia per Limes – la rivista di geopolitica è una testata di GEDI – si troverà sempre, con i volumi da edicola mensili ad alto prezzo, con la possibilità di approfondimenti verticali in videopodcast, newsletter e la scuola di geopolitica.
Ma lo spazio per Repubblica, che richiede a decine e decine di giornalisti di produrre contenuti di mera copertura del flusso di notizie, esiste ancora?
Non ne sarei così sicuro, men che meno per La Stampa: un giornale che ha una base locale ma costi e impostazione da testata nazionale è sempre stato un felice ossimoro, ma non è detto che sia un lusso che un editore può permettersi.
In ogni caso, La Stampa non andrebbe ai greci di Antenna, o comunque andrebbe rivenduta. Ci sono, pare, tre acquirenti possibili – secondo quanto scrive Professione Reporter: il gruppo Caltagirone, quello di Enrico Marchi NEM che ha già rilevato molte testate locali, e i piemontesi di Dogliani.
Nessuno è un editore puro, ma la Stampa è sempre stata il quotidiano della FIAT, dunque questo non è un criterio per giudicare i nuovi possibili azionisti di controllo.
La vera indipendenza
Nei miei anni nei giornali ho imparato che l’unica vera garanzia di indipendenza sta nel conto economico dell’azienda, non dipende dalle idee o dall’orientamento politico dell’editore. Un giornale che fa soldi rende il direttore autonomo, uno in perdita continua a esistere soltanto se l’editore ripiana il rosso.
Se la perdita è strutturale, se dura per anni e anni, l’unico editore disposto al sacrificio è uno che vuole i giornali per ragioni diverse dall’offrire una informazione che ha un suo mercato.
Il caso di GEDI è abbastanza disperato. Il Gruppo Espresso (Repubblica, Espresso ecc.) e ITEDI (Stampa e Secolo XIX) diventano GEDI nel 2017. Da allora il gruppo è sempre stato in perdita. E di parecchio.
Nel 2024 il rosso è stato di 45 milioni, e questo nonostante il perimetro del gruppo si sia ridotto di molto negli anni, con la vendita di testate locali e nazionali magari gloriose ma dalle prospettive incerte, dall’Espresso a MicroMega alla Gazzetta di Modena, per citarne tre alle quali sono stato personalmente molto legato, da lettore o da collaboratore (alla Gazzetta ho cominciato ai tempi del liceo).
La strategia nella stagione di John Elkann è stata fallimentare: la riduzione dei costi non è bastata; l’approccio digitale è stato poco giornalistico, con molti canali verticali pensati per gli inserzionisti più che per i lettori, le identità dei singoli giornali sono state stravolte (c’è stata pure la confusa stagione degli editorialisti condivisi da Stampa e Repubblica, che scrivevano sull’uno o sull’altro a seconda della linea del pezzo), HuffPost è passato da giornale free centrato sulla politica ai tempi di Lucia Annunziata a testata più generalista su abbonamento e così via.
Ma c’erano vere alternative?
I giornalisti hanno sempre l’idea che per rilanciare un giornale si debbano pagare di più quelli che lo fanno, lasciare loro massima autonomia nell’impiegare il proprio tempo e le cose – un po’ magicamente – andranno a posto.
La realtà è più complicata di così.
Il principale problema di GEDI è che la testata ammiraglia, cioè Repubblica, gioca in un campionato dove – in questo mercato ristretto – sembra esserci spazio per un solo vincitore (il Corriere). Chi arriva secondo non avrà mai abbastanza ricavi da permettersi i costi faraonici di un giornale generalista pensato per essere di massa che però ormai arriva a una nicchia.
Si potrebbe tentare la strada dell’approfondimento, sul modello di Le Monde. Ma, anche alla luce della mia esperienza a Domani, non sono sicuro che in Italia ci sia una domanda sufficiente per quel tipo di giornalismo (e che la squadra di Repubblica abbia voglia e capacità di riconvertirsi a un giornalismo diverso da quello che fanno da decenni).
I greci di Antenna hanno un piano migliore di quello tentato da Elkann? Non ne ho idea, ma rispettare e celbrare il grande passato di Repubblica è forse necessario per rilanciare GEDI, però non è sufficiente.
Se la vendita non va in porto – ai greci o a qualcun altro – un editore che vuole liberarsi del gruppo difficilmente ripianerà ancora le perdite, e ci saranno soltanto altri tagli. Che nei giornali di rado portano maggiore efficienza, di solito abbattono il morale e paralizzano la macchina. E a quel punto il destino è segnato.
(Estratto da Appunti)






