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Perché Israele ha dato una sberla al Qatar. Parla Molle (Chapman University)

Obiettivi e rischi dell'attacco di Israele al Qatar. Conversazione con Andrea Molle, docente di Scienze politiche e Relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange, California

Si è molto discusso sull’opportunità per Israele di attaccare il Qatar, una mossa da molti considerata azzardata. Ma una cosa è certa, dice Andrea Molle, docente di Scienze politiche e Relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange, California, in questa intervista a Start Magazine ossia, per dirla con le sue parole, che “ad essere finito sotto pressione è il ruolo del Qatar come mediatore relativamente neutro capace di dialogare con tutti gli attori, dagli Stati Uniti a Israele e agli Stati arabi del Golfo”.

PERCHÉ ATTACCARE IL QATAR PROPRIO ORA?

Se lei mi chiede perché attaccare il Qatar proprio adesso, le rispondo che c’erano vari motivi. Prima di tutto parlerei della finestra operativa: sappiamo che elementi di Hamas stavano negoziando dentro quel palazzo e ovviamente Israele ha ritenuto che ci fosse un’opportunità operativa, nel senso di poter eliminare una serie di figure che in quel momento erano meno protette. Poi parlerei anche di una pressione domestica dopo l’attacco a Gerusalemme.

ALTRI FATTORI IN GIOCO?

Siccome stiamo parlando di una guerra che ormai si protrae da mesi, è probabile che Gerusalemme abbia sentito in qualche modo la necessità di dimostrare internamente e al mondo di essere in grado di colpire ovunque. Diciamo che si è voluto lanciare una sorta di messaggio politico-diplomatico, nel senso che non esistono zone sicure o zone neutrali che siano immuni dall’azione dello Stato israeliano.

QUALCUNO DICE CHE SIA STATO LO STESSO QATAR A SCARICARE HAMAS.

Non lo escludo, ma ovviamente non abbiamo fonti attendibili che confermino il fatto che esplicitamente il Qatar abbia deciso di rivedere la propria alleanza con Hamas. Ma il fatto che il Qatar ospiti i leader di Hamas e al tempo stesso partecipi come mediatore fa certamente sì che il Paese subisca pressioni, nel senso di limitare l’ospitalità o espellere queste figure.

QUAL È IL SUO GIUDIZIO DA UN PUNTO DI VISTA SQUISITAMENTE MILITARE SULL’OPERAZIONE?

I punti di forza sono sicuramente la precisione e la qualità dell’intelligence impiegata per colpire i leader nel momento in cui erano riuniti per negoziare. Ciò suggerisce che Israele conosce benissimo i loro spostamenti e ciò consente persino una pianificazione di eventuali attacchi.
L’altro punto di forza è sicuramente l’effetto deterrente, perché l’attacco mostra che non ci sono limiti geografici o territoriali per Israele, che nessun posto è immune e ancora questo rende il nemico meno fiducioso nei confronti degli alleati. Ciò vale a isolarlo di più aumentandone i costi.

MA CIÒ NON RIDUCE LA CREDIBILITÀ DEL NEGOZIATO?

Direi proprio di sì, perché questo tipo di interferenza e il fatto di colpire mentre si negozia riduce la credibilità della controparte e rallenta il dialogo. Infatti viene meno la credibilità del mediatore, che può appunto percepirsi come vulnerabile, con l’effetto di ridurre la fiducia nelle garanzie che può offrire.

TUTTO CIÒ NON È RISCHIOSO DAL PUNTO DI VISTA DIPLOMATICO?

Ovviamente sì, se pensiamo che si è colpito il cuore di un Paese sovrano col quale le relazioni sono in qualche modo amichevoli, anche se meno strette rispetto ad altri Paesi alleati, dagli Stati Uniti all’Europa. Ma, più in generale, io vedo gravi conseguenze politiche nel supporto internazionale ad Israele, che è già abbastanza traballante.
Senza trascurare poi il rischio di escalation, perché non è esclusa una contromossa da parte non solo del Qatar, ma anche di altri Paesi del Golfo, che potrebbero allargare il conflitto e mettere ovviamente in pericolo la vita degli ostaggi, compromettendo la mediazione.

L’OPERAZIONE È STATA ESCLUSIVAMENTE MADE IN ISRAELE O C’È LO ZAMPINO DI QUALCUN ALTRO, COME GLI USA?

Ovviamente Israele ha dichiarato che l’operazione è interamente sua, che l’ha iniziata e condotta e ne detiene la piena responsabilità. Questa è anche la posizione ufficiale degli Stati Uniti, che ufficialmente dicono di essere stati avvisati, sebbene pochissimo tempo prima e non in modo tale da essere coinvolti dal punto di vista operativo.

È possibile naturalmente che l’intelligence provenisse da altri Paesi e che ci siano stati condivisione di dati o scambi di informazione. C’è da dire poi, dal punto di vista politico, che un’operazione del genere non può essere stata condotta senza il via libera degli Stati Uniti, perché questi ultimi, come sappiamo, hanno una base in Qatar, oltre a molti interessi. Quindi è ovvio, dal mio punto di vista, che ci sia stato uno scambio di informazioni.

NON È UN PO’ ARDITO ATTACCARE UN MAGGIOR ALLEATO NON NATO DEGLI USA?

Io penso proprio di sì: è stato decisamente un attacco che ha comportato dei rischi diplomatici, come abbiamo già sottolineato. Peraltro, gli Stati Uniti hanno dimostrato una sorta di imbarazzo e hanno dichiarato di non essere felici dell’attacco e di ritenerlo un evento sfortunato. D’altra parte, però, è ovvio che gli Stati Uniti possono anche aver considerato che l’attacco fosse nel loro interesse.

POSSIAMO CONSIDERARE CONCLUSA LA FUNZIONE STRATEGICA DI MEDIAZIONE DEL QATAR?

Ancora non sappiamo se possiamo considerare conclusa la funzione strategica del Qatar. Certamente essa può essere stata compromessa, obbligando il Qatar a un riposizionamento. Quello che è in qualche modo è già chiaro è che ad essere finito sotto pressione è il ruolo del Qatar come mediatore relativamente neutro, capace di dialogare con tutti gli attori, dagli Stati Uniti ad Israele e agli Stati arabi del Golfo. A me pare che questo attacco, in ogni caso, metta sotto pressione Doha affinché ritorni ad essere un attore più neutro.

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