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leone xiv

Leone XIV e i politici italiani

La politica italiana si è ormai abituata al Papa straniero. Il corsivo di Damato pubblicato sul quotidiano Libero

La buonanima di Giovanni Spadolini prendeva le misure del Tevere ad ogni cambiamento di Papa per valutare le distanze fra il Vaticano e la politica italiana. Le aveva prese da storico e continuò a prenderle anche da politico, arrivato a Palazzo Chigi al secondo anno del Pontificato del primo e unico polacco giunto al vertice della Chiesa. Due anni nei quali anche per effetto del clima cambiato con Karol Wojtyla nella concezione della forza del comunismo – passando dalla rassegnazione alla resistenza e alla vittoria – era andata esaurendosi la politica italiana della cosiddetta solidarietà nazionale. Che era peraltro costata la vita ad Aldo Moro, uno dei suoi artefici, ucciso il 9 maggio di 47 anni fa dalle Brigate rosse.

Testimone non indifferente, pur dopo la caduta del comunismo, con quei gesti pubblici a favore di Giulio Andreotti, della fine della cosiddetta prima Repubblica italiana, Giovanni Paolo II permise al cardinale Camillo Ruini di sottrarsi al boicottaggio della seconda Repubblica che aveva esordito con l’arrivo di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, su designazione quasi diretta degli elettori. Fu proprio Ruini infatti, secondo rivelazioni fatte poi da lui stesso, che rifiutò l’aiuto chiestogli dall’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro per fare cadere il primo governo di centrodestra, quasi strozzandolo nella culla.

Benedetto XVI, come volle chiamarsi il tedesco Joseph Ratzinger succedendo al polacco nominatosi Giovanni Paolo II, fu eletto nel 2005 mentre Berlusconi, tornato a Palazzo Chigi dopo l’interruzione della sua prima avventura di governo, cercava appunto di governare fra ostacoli interni ed esterni alla coalizione.

Il Papa non gli fu di certo ostile, noto per le sue frequentazioni da cardinale, partecipe anche di incontri, dibattiti, convegni promossi da protagonisti dell’area conservatrice di centrodestra: per esempio, Gaetano Rebecchini, Giuliano Ferrara, Marcello Pera.

All’arrivo dell’argentino José Bergoglio, chiamatosi Francesco nel 2013 succedendo al dimissionario Benedetto XVI, la politica italiana era un po’ nella palude della transizione fra il centrodestra originario a trazione berlusconiana a un centrodestra a trazione prima salviniana e poi meloniana. Una palude nella quale la sinistra tentò inutilmente di intrufolarsi scambiando per compagni, ad esempio, persino quei qualunquisti, non di più, che hanno finito per dimostrarsi i grillini. Che pur di resistere con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi fra il 2018 e il 2021 hanno cambiato maggioranze con una disinvoltura pitonesca.

Il compianto Papa Francesco, che aveva visto anche di peggio nella sua Argentina, ha seguito al suo modo l’evoluzione del centrodestra dalla trazione berlusconiana a quella meloniana. E non si è lasciato certamente intimidire o paralizzare dalle campagne più o meno professionali dell’antifascismo e simili manifestando le sue simpatie per la prima donna italiana, e di destra, alla guida del governo.

Ho già intravisto nei soliti salotti televisivi, e fra le righe e le allusioni di certe analisi sulla carta stampata, segni di sofferenza, a dir poco, per l’elezione del primo americano -o nordamericano, come preferite- a Papa a meno di tre mesi dal ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, affettatosi a chiedergli praticamente, e con un misto di orgoglio e di umiltà, udienza a Roma. Che Gorgia Meloni intanto ha restituito alla centralità addirittura dei tempi, in cui lei non era neppure nata, della firma dei trattati europei.

Lo so. Gli ossessionati dell’antimelonismo – per niente tentati da uno sguardo oltre il loro naso, pur mentre cambia la geopolitica, e si fa fatica a creare quella “pace disarmata e disarmante” appena predicata da Leone XIV, come ha scelto di chiamarsi Robert Francis Prevost – non si daranno pace. E vedranno mostri dappertutto. Ma dovranno darsene e farsene una ragione.

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