La famosa frase di Carl von Clausewitz, “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, potrebbe essere parafrasata in: “La scienza è la continuazione della guerra con altri mezzi”. Il fatto che nel conflitto in corso tra Israele e Iran siano stati uccisi alcuni scienziati – anche se sarebbe meglio definirli ricercatori, attenendoci alla distinzione inglese tra scientist e researcher – impegnati nell’applicazione bellica dell’energia atomica, ancorché come intellettuali e non militari, suona come una sonora sveglia.
In molti, in generale e soprattutto nelle settimane scorse – in coincidenza con l’incruento ma aspro conflitto scatenatosi tra la Casa Bianca e il mondo della conoscenza americana, in particolare alcuni atenei come Harvard – hanno infatti continuato a propalare la favoletta della ricerca scientifica come mondo di pace e bene universali. Come se l’avanzamento della conoscenza fosse finalizzato a trasferire più salute e più benessere alle persone e al pianeta.
Favoletta perché contrasta con un dato storico innegabile: il progresso parallelo tra scoperte, invenzioni e il loro utilizzo in ambito politico e conflittuale.
Basterebbe citare il Progetto Manhattan, i nomi di Oppenheimer, Enrico Fermi ed Einstein, nelle loro diverse posizioni; quello di Alan Turing, popolare come colui che “decifrò Enigma e contribuì a sconfiggere Hitler”; gli scienziati tedeschi andati a devolvere le proprie competenze presso i vincitori della Seconda Guerra Mondiale, tra cui Wernher von Braun, che sviluppò il missile V-2e si trasferì negli Usa per collaborare al programma spaziale. Potremmo riflettere sugli scienziati coinvolti nello sgancio di due bombe atomiche sostanzialmente ininfluenti per le sorti della guerra ma utili a testare e mostrare la devastante capacità distruttiva dell’energia su cui si basavano. E sulla cosiddetta guerra fredda, sulle parallele corse tra USA e URSS, condotte sulle piste degli armamenti e della ricerca aerospaziale e astrofisica.
Ma, soprattutto, dovremmo ricordare Vannevar Bush, l’uomo che con lucidità statuì il reciproco scambio tra scienza e politica, quindi democrazia ma anche guerra, l’ingegnere e inventore che coordinò le attività di ricerca degli Stati Uniti in anni cruciali, sostenendone il potenziamento a fini politici. Ogni nuova tecnologia, in modo inevitabile, porta con sé la diversità: quindi il cambiamento ma anche il divario sociale, culturale, economico. Si pensi a Johannes Gutenberg, al quale si deve la stampa a caratteri mobili che rivoluzionò l’Europa quanto e più di Martin Lutero, che avrebbe potuto ben poco senza la riproduzione della Bibbia con il nuovo metodo.
Scienza vuole dire maggiori tensioni, tra le nazioni e nelle stesse nazioni, nelle famiglie, tra le persone. Pensiamo a quanto l’utilizzo di dispositivi e reti di comunicazione sia oggi considerato un fattore critico, foriero di disagi e destabilizzazioni analoghi a quelli un tempo attribuiti alla diffusione delle droghe. L’intelligenza artificiale non sta soltanto emarginando la maggioranza che se ne sente esclusa e tenta, balbettando, di farne uso, finendo così vittima di fornitori e mediatori. La spaccatura più insidiosa vede come vittime coloro che la manovrano tecnicamente, con apparente abilità da nerd, le giovani generazioni abili a smanettare ma privi dei contenuti culturali e della consapevolezza psicologica necessari.
Torniamo all’Iran e a Israele, che da sempre è il paese con il maggior investimento in ricerca in proporzione al prodotto interno lordo e, da sempre, il paese col maggiore investimento militare, finanziario ma soprattutto psicologico e culturale. Un paese che da quando è nato si ritiene perennemente in guerra, isolato in un contesto di avversari e nemici telecomandati da Imperi del male come quello di Teheran.
Questo certo non diminuisce il nostro orrore per l’indifferente aggressività con la quale Tel Aviv considera meri danni collaterali inevitabili la distruzione di ospedali, la morte di bambini, l’impedimento a persone allo stremo di raggiungere i punti dove trovare qualcosa da mangiare. E proprio questo è il secondo memo che la morte degli scienziati iraniani ci pone, ricordando il fondamentale cambiamento di paradigma tra la prima e la seconda guerra mondiale: la ‘15-18 resta quella con più vittime militari ma quella cominciata nel 1939 è enormemente superiore come numero di morti civili, in un una quantità che mai si sarebbe immaginata. Da allora, i conflitti bellici hanno sempre più confusole due categorie, così come quelle di soldato e terrorista, si pensi al Vietnam. Oggi Israele ritiene, in modo impietoso ma non immotivato, che a Gaza non gli sia possibile distinguere del tutto tra il miliziano di Hamas e il civile che ne è la vittima.Figuriamoci se possa discriminare tra un ricercatore e un militare al soldo di Teheran.