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Così la Cina si pappa il ferro della Guinea

Dopo trent'anni di ritardi, la miniera di Simandou in Guinea ha iniziato a esportare minerale di ferro verso la Cina, promettendo di rivoluzionare il mercato globale e trasformare l'economia del paese africano.

Dopo quasi trent’anni di ritardi, scandali e instabilità politica, il progetto minerario di Simandou, in Guinea, ha finalmente preso il via. Lo riporta l’Economist, sottolineando che il 3 dicembre il primo carico di minerale di ferro ha lasciato le coste guineane diretto verso la Cina.

Si tratta di uno dei giacimenti più grandi al mondo, con riserve stimate in 3 miliardi di tonnellate di minerale di ferro e un valore potenziale di oltre 300 miliardi di dollari.

Simandou non è solo una miniera, rimarca la testata britannica: può ridisegnare gli equilibri del mercato globale del ferro, portare ricchezza immensa a uno dei Paesi più poveri dell’Africa occidentale e, allo stesso tempo, consolidare il potere della giunta militare al comando.

Ma i rischi – dalla “malattia olandese” alla corruzione, fino a possibili conflitti – sono altrettanto grandi.

Un tesoro sepolto per decenni

Scoperto negli anni ’90, il progetto è rimasto bloccato per quasi trent’anni a causa di scandali di corruzione, colpi di Stato e costi proibitivi.

L’Economist ricorda che Rio Tinto, il colosso anglo-australiano che ottenne i diritti di esplorazione nel 1997, ha dovuto affrontare ostacoli enormi: la zona è remota, le piste diventano impraticabili con le piogge torrenziali, e per rendere operativa la miniera serviva costruire una ferrovia di 620 km, un nuovo porto e un sistema di trasbordo in mare aperto perché le acque costiere sono troppo basse per le grandi navi.

Il conto finale ha superato i 20 miliardi di dollari, rendendo Simandou il progetto minerario più costoso della storia.

L’ingresso della Cina

A sbloccare l’impasse è stata la Cina, rileva l’Economist, ossia il maggiore consumatore mondiale di minerale di ferro.

Pechino ha spinto con forza il progetto, sia per assicurarsi forniture a prezzi più bassi sia per ridurre la dipendenza dall’Australia, attuale dominatrice del mercato.

Oggi la proprietà è divisa: Rio Tinto detiene circa un quarto, Chinalco, un’azienda statale cinese, un’altra parte importante, mentre un consorzio cinese-singaporiano (WCS) completa il quadro.

Gli analisti prevedono che l’ingresso di Simandou sul mercato farà crollare il prezzo del ferro dagli attuali 100 dollari a tonnellata fino a 70 dollari entro un paio d’anni.

Per Rio Tinto restare nel progetto, anche dividendo i profitti, è diventato una scelta strategica: meglio partecipare che restare fuori.

Le ambizioni della Guinea

Per il governo guineano Simandou rappresenta una possibilità storica di trasformazione.

Entro il 2030 la miniera dovrebbe produrre 120 milioni di tonnellate l’anno, aggiungendo il 6% all’offerta globale e portando le esportazioni del Paese a raddoppiare (circa +12 miliardi di dollari annui).

Il FMI stima che, con una gestione adeguata, il PIL potrebbe crescere del 26% rispetto allo scenario senza il progetto.

La giunta militare, guidata dal generale Mamady Doumbouya, ha lanciato il piano “Simandou 2040”: con i proventi della miniera intende investire 200 miliardi in 15 anni in infrastrutture, istruzione (metà della popolazione è ancora analfabeta), diversificazione economica e persino un fondo sovrano.

L’obiettivo dichiarato è evitare che i soldi “finiscano in tasca” a qualcuno, puntando invece su strade, scuole e industrie di trasformazione del minerale.

Rischi economici e sociali

Non tutto però è rose e fiori. Il settore minerario già rappresenta un quinto del PIL e oltre il 90% delle esportazioni: un ulteriore boom del ferro rischia di rafforzare la moneta nazionale, rendendo meno competitivi gli altri comparti (la cosiddetta “malattia olandese”).

Senza politiche mirate, il FMI prevede che l’impatto sulla povertà – oggi al 43% – sarà praticamente nullo. Inoltre, una volta completata la fase di costruzione, 50.000 operai resteranno senza lavoro.

Il governo sta cercando di obbligare le compagnie a investire in impianti di lavorazione locale (ad esempio per trasformare il minerale in pellet), arrivando persino a revocare licenze a chi non collabora.

Con Rio Tinto c’è già una divergenza: i guineani dicono che l’azienda ha accettato, Rio sostiene di aver solo promesso di valutare l’idea.

Il lato politico

Simandou arriva in un momento delicatissimo per la giunta. Il generale Doumbouya, salito al potere con il colpo di Stato del 2021, ha rotto la promessa di non candidarsi e si presenta alle presidenziali del 28 dicembre prossimo in un contesto di repressione: opposizioni escluse, stampa imbavagliata. I manifesti elettorali accostano il suo volto in divisa alle promesse di “Simandou 2040”.

Un mandato popolare rafforzerebbe la sua posizione, soprattutto di fronte a possibili divisioni interne alle forze armate.

Ma più la miniera produrrà ricchezza, più alto sarà il valore del potere: in Africa le grandi risorse minerarie hanno spesso innescato conflitti.

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