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giuli veneziani

Giuli, Veneziani e la cultura (non solo di destra) ormai marginale

Che cosa si dice e che cosa non si dice su cultura di destra e dintorni. Il corsivo di Battista Falconi a proposito della tenzone Veneziani-Giuli

La querelle insorta tra Alessandro Giuli e Marcello Veneziani spiace a molti: agli amici di uno o dell’altro e a un ambiente che li conosce e frequenta entrambi. La loro lite in pubblico amareggia una “cultura di destra” che, come ai tempi di Silvio Berlusconi, fa paradossalmente più fatica della politica della stessa parte. Come se fare ingresso a Palazzo Chigi e presiedere un Consiglio dei ministri fosse più facile che incrinare la cosiddetta egemonia. Il che è in parte comprensibile, poiché ci vuol meno ad abbandonare un partito che un’idea su ciò che è bene e male, bello o brutto; ma resta assurdo che, dopo l’enorme fatica fatta da Giorgia Meloni e FDI per traversare il deserto delle opposizioni, spesso in solitaria, proprio l’ambito MIC sia così travagliato da dimissioni e polemiche.

Veneziani è deluso, come ha scritto in prima pagina sulla Verità: “Tutto è come prima, nel bene, nel male, nella mediocrità, perdura anche il clima di intolleranza e censura verso le idee che non rientrano nel mainstream”. Il ministro della Cultura ha risposto facendo leggere un suo messaggio alla Camera dei Deputati, “invece di incoraggiarci o giudicare con equanimità ha deciso di arruolarsi nel fronte del nemichettismo e negare la forza di fatti e numeri”. Parti di ragione e toni davvero aspri, reiterati nelle repliche: “Avremmo volentieri taciuto, scriviamo per non sottrarci a un bilancio onesto, realistico e ragionato” (Veneziani); “inoculiamo una dose di vaccino anti nemichettista nella pelle esausta del vecchio amico che, dopo aver rifiutato l’onore di diventare Ministro, sversa la bile nera di cui trabocca il suo animo ricolmo di cieco rimpianto” (Giuli). Tanta veemenza ha meritato persino la malevola attenzione del Pd.

Cerchiamo però di ricavare qualcosa di utile dalla querelle, in particolare capiamo se può orientarci per uscire dalla generale discussione sulla destra che non sfonda in teatro, cinema, editoria, spettacolo, ricerca, musei, università… Tesi peraltro confutabile, se si guarda agli orientamenti dei grandi classici, ultimo e indicativo caso in ordine cronologico, Pier Paolo Pasolini. E basata sull’occupazione gramsciana dei posti di comando delle strutture culturali, su lobby e sistemi, sulla capacità di fare intelligencija, che invece i progressisti hanno applicato abilmente per decenni, dal secondo dopoguerra mondiale e sfruttando anche l’esperienza maturata sotto il fascismo, per esempio con i GUF.

L’attuale governo si è mosso quanto e come è riuscito. Talvolta con subitanee conferme di bravi dirigenti apertamente ostili a maggioranza e premier come Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino. Talaltra con nomine contestatissime per presunta inadeguatezza, come con Beatrice Venezi alla Fenice: attenzione, i sindacati annunciano la prevedibilissima contestazione al concerto di Capodanno! In mezzo, nomine più o meno felici, talvolta passate facilmente perché, utile da focalizzare, le poltrone culturali interessano soprattutto a chi le desidera, a interessarsene sono quasi esclusivamente gli esclusi. Per cittadini, persone normali, utenti, se un museo o un teatro cambiano manager non cambia così tanto, poiché ne esce comunque un mix di amichettismo e marchette, qualche nomone nazional-popolare per fare cassa e qualcosa di davvero meritevole per i pochissimi in grado di apprezzare. Diciamolo chiaramente: un pubblico culturale consapevole non esiste quasi, il mercato è irrisoriamente marginale. Ad attirare un singulto di attenzione, infatti, sono solo le critiche delle star in favore di camera, come con Elio Germano ai premi Donatello al Quirinale.

In questo contesto, come in qualche modo Veneziani e Giuli confermano, la battaglia per un nuovo ordine nazionale del bello e del buono non passa una call for proposal delle grandi idee, ma per l’adattativo evolutivo, l’applicazione del meno peggio a una realtà fluida e accelerata. Regge quindi chi sa stare al mondo, piedi piantati per terra senza perdere la testa, dandosi da fare, magari arrangiandosi.

Anche questa vicenda, nota in chiusura, potrebbe rientrare nello sbotto per gli andirivieni sulla manovra cui la premier si sarebbe lasciata andare ieri in CDM: “Mi tocca rivedervi pure lunedì”. Meloni però si consoli perché, riferiscono altri retroscena, in casa Pd le cose non vanno sicuramente meglio: pare si allarghi il fronte che auspica da Elly Schlein l’indicazione di un candidato premier diverso e che lamenta la mancanza di uno staff all’altezza della leader. Più o meno quanto si dice per Meloni da tre anni a questa parte.

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