La disinvoltura con cui si parla di armi, di usarle o farle usare, di riarmo, colpisce soprattutto chi ha una certa età ed è cresciuto e vissuto in decenni in cui la pace sembrava una realtà e una prospettiva ormai consolidate. Già questo è curioso, perché in tal modo questo valore rischia di essere meno pregnante proprio per le generazioni che spesso ne sono state le maggiori assertrici.
Dopo l’esplosione e il perdurare delle crisi in Ucraina e Medio Oriente, ai giovani sta cioè accadendo per la pace quanto già purtroppo capitato alla libertà dopo la pandemia di Covid e al benessere dopo la crisi del 2008: un’abitudine a rinunciarci. Si diffonde tra molti di loro una rassegnata accettazione dell’idea che le cose peggiorino, anche gravemente.
Non generalizziamo, per carità, ma certo non vediamo una mobilitazione giovanile a favore della pace anche solo lontanamente paragonabile a quella che si levò contro la guerra in Vietnam. E questo esempio spiega qualcosa: oggi chiedere la cessazione delle ostilità significa anche dare un po’ di ragione a Trump, Salvini e altri leader contro cui rema tutto il mainstream. Qualcuno lo fa malvolentieri, preferisce ripiegare su richieste umanitarie ma molto ideologiche, come i ProPal.
Ed è così che la disinvoltura guerraiola o almeno militarista impera. Si sciorinano percentuali e cifre da brivido: Giorgetti ha confermato che al vertice di giugno l’Italia attesterà di aver raggiunto l’obiettivo del 2% del Pil in Difesa, ma la Nato alzerà l’asticella al 3,5%, 33 miliardi in più. E, soprattutto, la forza delle armi diviene ragione. Se i flebili, incerti vagiti di tregua tra Hamas e Israele e tra Russia e Ucraina evolveranno, come speriamo, la violenza dimostrerà la propria utilità. Il 7 ottobre, la reazione feroce a Gaza, l’invasione dei territori altrui avranno portato a casa qualcosa, quello che otterranno dalle eventuali tregue.
Ultima noticina, questo triste andazzo lascia sul campo anche un’altra vittima di cui i giovani, in futuro, potrebbero a ragione non aver rimpianto: l’Unione europea. Non l’Europa, che i ragazzi conoscono, amano e frequentano persino in declinazioni minori come i contest musicali, ma le istituzioni comunitarie: prolisse, costosissime, arroccate nei loro privilegi, guidate da personaggi mediocri, partiticamente rissose, sostanzialmente inutili. Tanto che basta a qualunque leader nazionale dall’ego ipertrofico inventarsi un nuovo club per mettere l’Ue ufficiale ancor più ai margini.