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Come si dibatte tra Pentagono e Trump sulla minaccia del Climate Change alla Sicurezza degli Stati Uniti (prima parte)

L'analisi di Fabio Vanorio.

Da più di un decennio, negli Stati Uniti il Department of Defense (DoD), la Comunità Intelligence e gli altri enti preposti alla tutela della sicurezza nazionale hanno iniziato a considerare il cambiamento climatico (climate change) tra le minacce da fronteggiare.

Dal 2010 al 2017, il DoD ha pubblicato almeno 35 prodotti informativi sull’argomento, mentre dalla Comunit Intelligence ne sono arrivati almeno 14. Questi documenti, spesso corredati da autorevoli commenti da parte di ufficiali, funzionari dell’intelligence e cultori della materia, riflettono un consenso crescente nei confronti della pericolosità del fenomeno non più limitata al mero significato economico e sociale tradizionale, ma estesa ai comparti difesa e sicurezza nazionale.

Come riportato dal GAO (Government Accountability Office), il DoD, in particolare, ha – mediante i suoi documenti strategici e di policy – generato una letteratura relativa all’impatto del climate change sulla difesa militare, sulle infrastrutture e sulla prontezza operativa, estrapolando l’importanza della “resilienza” come condizione essenziale da raggiungere per la piena realizzazione delle missioni militari in presenza di variazioni climatiche di ogni intensità.

Una sommaria rappresentazione di detta letteratura può essere riassunta nel seguente elenco:

  • 2010:
    • Nel Quadrennial Defense Review, il DoD ha, tra l’altro, focalizzato l’influenza del climate change sulla possibilità di svolgere correttamente e ad intervalli regolari le pratiche di esercitazione su terra, mare e aria, da cui dipende la prontezza operativa. Il documento ipotizza serie conseguenze del climate change sull’ambiente operativo futuro, sui ruoli e sulle missioni intraprese dal DoD causate da cambiamenti nelle precipitazioni e nel ciclo idrologico, maggiore intensità delle tempeste, aumenti della severità e della frequenza delle siccità, temperature medie più elevate, aumenti dei livelli del mare e nell’acidificazione degli oceani, maggiori rischi di incendi boschivi, cambiamenti nella gamma di piante e di animali, e cambiamenti nell’estensione e nello spessore del ghiaccio marino artico.
    • Nella Navy Climate Change Roadmap, una Task Force della Marina degli Stati Uniti ha, tra l’altro, valutato gli effetti del surriscaldamento delle temperature e dell’innalzamento dei mari sulla capacità operativa (“L’innalzamento del livello del mare e l’aumento delle tempeste porterà ad una maggiore probabilità di inondazioni nelle infrastrutture costiere e potrebbe limitare la disponibilità di basi oltremare”).
  • 2011:
    • Nella National Military Strategy, tra l’altro, la definizione di climate change è stata inserita tra le minacce potenzialmente gravi per la piena regolarità dell’ambiente strategico di competenza del DoD.
  • 2012:
    • Nello Strategic Sustainability Performance Plan, il DoD ha, tra l’altro, analizzato l’impatto diretto del climate change sulle installazioni ed operazioni militari, sia limitando la disponibilità e la qualità delle gamme di addestramento e delle superfici di terra necessarie per le operazioni militari, sia danneggiando temporaneamente o permanentemente le infrastrutture.
  • 2013:
    • Nella Arctic Strategy, il DoD ha, tra l’altro, enfatizzato il rischio di aumento delle presenze nella Regione Artica grazie alla maggiore facilità di accesso per la diminuzione del ghiaccio stagionale. Ciò a detrimento della sicurezza ambientale della Regione, area sensibile per il DoD.
  • 2014:
    • Nella Roadmap, il DoD ha, tra l’altro, individuato una serie di impegni su cui concentrarsi nella tutela dagli effetti del climate change delle infrastrutture “costruite” (aree di staging dove conservare e preparare quanto logisticamente necessario alle missioni a carattere operativo ed umanitario del DoD) e “naturali” (fondamentali nelle simulazioni di teatro antecedenti ogni missione).
    • Nella Quadrennial Defense Review, il DoD ha, tra l’altro, focalizzato le conseguenze negative del climate change sulla “resilienza operativa” delle infrastrutture militari.
  • 2015:
    • La National Security Strategy ha, tra l’altro, consolidato, al più alto livello presidenziale, la considerazione del climate change tra i principali rischi strategici per gli interessi nazionali degli Stati Uniti.
  • 2016:
    • Nello Strategic Sustainability Performance Plan, il DoD ha, tra l’altro, analizzato le interferenze, dirette ed indirette, del climate change sulla capacità di asset operativi di condurre una missione, ritenendo che valutazioni di una minaccia ambientale anche più aggressiva di quella stimata possano migliorare la pianificazione delle missioni dell’intera Defense Enterprise degli Stati Uniti.
    • Nel Climate Change Adaptation and Resilience, il DoD ha, tra l’altro, stabilito che, al fine di garantire efficacia ed efficienza nella capacita’ militare a fronte della minaccia rappresentata dal climate change (“resilienza operativa”) la pianificazione e l’esecuzione delle missioni devono includere l’identificazione e la valutazione degli effetti del climate change su (1) ogni specifica missione, (2) sui piani e sulle procedure di attuazione e (3) sulle previsioni di variazione del rischio climatico nel corso delle operazioni militari.
    • Nel Regional Sea Level Scenarios for Coastal Risk Management, una Task Force composta da Strategic Environmental Research and Development Program, NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), USACE (United States Army Corps of Engineers), Office of the Oceanographer of the Navy, e South Florida Water Management District ha documentato il rischio climatico per l’infrastruttura navale, sviluppando una Arctic Roadmap, dove viene identificato il ruolo del climate change nei diversi ambiti della sicurezza (nazionale, economica, energetica) e nella tutela della sovranità territoriale.

Dal 2017 in poi, con l’ingresso dell’Amministrazione Trump alla Casa Bianca il consenso a livello istituzionale è rimasto pressocché intatto sebbene il Presidente abbia mostrato posizioni personali contrarie sull’argomento e sulle modalità di trattamento del climate change nei consessi internazionali, arrivando al punto di minacciare il ritiro degli Stati Uniti dal Paris Agreement (cosa che, nei termini dell’Accordo, non potrà avvenire prima del 4 novembre 2020).

Nonostante il primo Documento Strategico per la Difesa dell’Amministrazione Trump abbia omesso ogni riferimento al cambiamento climatico, la propensione del DoD allo studio della sicurezza ambientale si è mantenuta molto elevata ed anche superiore ad altre agenzie federali, quali, ad esempio, il Dipartimento per l’Interno e l’Environmental Protection Agency (EPA).

Le recenti dimissioni di James N. Mattis da Segretario alla Difesa sono state successive al riconoscimento anche da parte sua del climate change come minaccia strategica. Nel 2017, Mattis, di fronte all’Armed Service Committee del Senato, nel corso di un’audizione non pubblicata, ha affermato l’esistenza di un rischio climatico sia nella geopolitica della difesa (“Il cambiamento climatico sta influenzando la stabilità nelle aree del mondo in cui operano le nostre truppe”) che nella prontezza operativa del Pentagono (“È opportuno che i Comandi Combattenti incorporino i fattori di instabilità che hanno un impatto sulla sicurezza ambientale nelle aree di loro pianificazione”). Pur con l’uscita di scena di Mattis, Heather Babb, portavoce del DoD, ha confermato l’intenzione del Pentagono di “rivedere” le linee guida sulla resilienza climatica “per garantire il necessario supporto alla pianificazione militare”.

Anche al Congresso, la situazione non è favorevole per l’argomento climate change.

La maggioranza repubblicana al Senato, nonostante la sua storica opposizione all’azione di Obama in materia di climate change ed il suo persistere nel frapporsi ad ogni ipotesi di regolamentazione ambientale, ha comunque previsto l’istituzione di misure di resilienza nel recente Fiscal Year 2019 National Defense Authorization Act (NDAA), legge annuale di spesa per la difesa. Tra queste, la previsione che i futuri progetti di costruzione militare situati su c.d. pianure alluvionali di 100 anni, (ossia territori dove si possano verificare inondazioni con una possibilità dell’1% di realizzazione ogni anno), siano adeguatamente elevati in altezza da contrastare il rischio inondazioni, nonché di fondi addizionali per una iniziativa di conservazione e di resilienza energetica (48,4 milioni di dollari) e per la ristrutturazione di una facility di manutenzione delle munizioni in Alaska posta a repentaglio dal disgelo del permafrost (15,5 milioni di dollari).

Nell’influente Armed Services Committe del Senato, il nuovo Presidente (posto a lungo ricoperto dallo scomparso Senatore John McCain), il Senatore James M. Inhofe (R-Okla.), tra i più scettici nei confronti del climate change, ha già dichiarato che la politica climatica non rappresentera’ una priorita’ per l’attivita’ del Comitato.

A dimostrazione del conflitto ideologico in atto tra una parte degli Stati Maggiori delle Forze Armate statunitensi e l’attuale Amministrazione presidenziale sull’argomento, pur a fronte delle visioni contrarie di Trump (il quale, fin dal 2012, ha sempre definito il cambiamento climatico come un falso) e del Senatore Inhofe, (il quale ha dichiarato che lo sviluppo del climate change non è altro che un ciclo di ampiezza trentennale), tra il 2017 ed il 2018 diciotto alti ufficiali del Pentagono hanno affermato la loro convinzione e la loro considerazione del climate change come un problema di sicurezza nazionale, anche con l’appoggio del Congresso che si e’ espresso in tal senso nel National Defense Authorization Act per l’anno fiscale 2018.

L’impossibilità nel fermare la considerazione che il fenomeno sta assumendo (al netto di cospirazioni) è nelle conseguenze concrete che il climate change ha causato finora alle attività del Pentagono.

Schematicamente, il climate change presenta due tipi distinti di minacce:

  • minacce dirette alle installazioni militari governative.
  • minacce geopolitiche ed economiche globali indirette.

Esamineremo questi due punti in due articoli diversi così da avere più spazio per approfondirne la riflessione.

Quando considerato come una minaccia diretta alle installazioni militari governative, il climate change è ritenuto incidere negativamente sulla prontezza militare, sulla capacita’ operativa, sulla catena di approvvigionamento e sulle infrastrutture delle forze armate statunitensi a causa dell’impatto diretto degli eventi meteorologici sulle installazioni permanenti negli Stati Uniti, sulle basi all’estero e sulle forze stanziate in prossimità di teatri ma non coinvolte in operazioni belliche (“forward-deployed forces”).

Il DoD deve, dunque, occuparsi di climate change per motivi concreti, ossia garantire l’incolumità a fronte delle calamità naturali del proprio personale e delle unità civili a supporto (queste prime due in totale pari a 1,3 milioni di persone in tutto il mondo) e delle infrastrutture militari.

Come già accennato, nonostante le tensioni tra una parte degli ufficiali delle Forze Armate statunitensi e l’attuale Amministrazione presidenziale sull’argomento climate change, appena un anno dopo l’insediamento del Presidente Trump, l’Ufficio dell’Assistant Secretary of Defense for Energy, Installations and Environment del DoD ha avviato uno Screening Level Vulnerability Assessment Survey of DoD Sites Worldwide, in parole povere una rilevazione statistica con lo scopo di identificare le vulnerabilità infrastrutturali del Pentagono nei confronti degli effetti del climate change.

Delle oltre 3.500 basi militari, stazioni navali e altre installazioni militari, infatti, 706 hanno riferito di essere state colpite da inondazioni, mentre altre centinaia hanno identificato interruzioni causate da siccità e forti venti. L’evacuazione non pianificata di 30 navi dalla Stazione Navale statunitense di Norfolk durante l’uragano Florence nel Settembre 2018 e la distruzione di hangar presso la Base Aerea di Tyndall a seguito dell’uragano Michael nell’Ottobre 2018 dopo rappresentano i più recenti esempi di questo tipo di impatto.

A Camp Lejeune, base dei Marine Corps a Jacksonville, nel North Carolina, l’uragano Florence ha causato danni per circa 3,6 miliardi di dollari. Un mese dopo, l’uragano Michael ha devastato la Panhandle della Florida (una striscia di territorio di 370 chilometri a Nord Ovest della Florida, posta tra l’Alabama, la Georgia, ed il Golfo del Messico), creando danni strutturali catastrofici (qui e qui) alla base aerea di Tyndall. L’uragano ha danneggiato il 95 percento degli edifici della base, e più di una dozzina di caccia F-22 sono stati mantenuti a terra durante la tempesta.

Non solo acqua, però, ma anche fuoco come nel caso della base navale di Ventura County (California) che ha dovuto essere evacuata a causa dell’avvicinarsi agli incendi.

Le basi navali sono sempre più minacciate da tempeste estreme e innalzamento del livello del mare. La Marina, dunque, è tra gli enti più attivi del DoD con lo sviluppo di un piano ventennale da 21 miliardi di dollari presentato al Congresso, teso a modernizzare i cantieri navali della Marina in tutto il paese, in particolare dove l’obsolescenza rende le infrastrutture militari esistenti incapaci di contrastare le crescenti inondazioni.

Anche altre installazioni non navali sono messe in pericolo dal vento, dagli incendi boschivi, dalla siccità e dall’erosione legati a forti precipitazioni. Nell’Assessment Survey sopra citato, il Dipartimento della Difesa ha rilevato che circa il 50 per cento delle strutture militari complessive negli Stati Uniti aveva riportato almeno una conseguenza concreta riferibile al climate change. Tali eventi presi complessivamente rappresentano costi finanziari di lungo termine non indifferenti, con effetti evidenti sulla prontezza operativa in termini di interruzioni nello svolgimento di esercitazioni.

Un buon banco di prova per comprendere la capacità del DoD di prevenire l’influenza negativa futura del climate change sulla prontezza operativa sarà rappresentata dal cantiere navale di Portsmouth (Virginia). Costruito nel 1767, il cantiere navale, – soprannominato “Norfolk”, per la vicina città -, è la più grande installazione navale del mondo. Ma la sua posizione nella punta meridionale della Baia di Chesapeake ha lasciato l’area metropolitana di Hampton Roads, che comprende Norfolk e altre sei città della Virginia, particolarmente vulnerabile alle condizioni climatiche estreme.

L’area ha uno dei più elevati tassi di aumento relativo del livello del mare lungo l’intera costa orientale degli Stati Uniti – circa cinque centimentri ogni dieci anni -, secondo un rapporto condotto da ricercatori della NASA lo scorso anno. Questo effetto è particolarmente pronunciato presso la stessa base navale, dove i ricercatori hanno scoperto che l’innalzamento del livello del mare sta facendo affondare la base a un ritmo più veloce rispetto all’area circostante.

Nonostante la dedizione al problema da parte dello Stato Maggiore di Norfolk, la criticità è considerevole in particolare per le migliaia di marinai e civili di stanza in loco. Nel 2009, secondo un rapporto del GAO, una perdita devastante in uno dei cinque bacini di carenaggio – combinato con un lungo periodo di alte maree – ha portato ad inondazioni “ad un tasso stimato di 3.000 galloni al minuto” (più di 11 mila litri). Otto anni più tardi, quattro dei bacini di carenaggio del cantiere ancora fanno fronte a minacce di inondazioni da estremamente alte maree e tempeste. Due anni fa, l’uragano Matthew ha invaso un edificio della base adibito alla gestione delle risorse umane lasciando membri dello staff sfollati per sei mesi. Nel marzo 2018, un progetto di costruzione militare è stato avviato per aggiornare i sistemi infrastrutturali del bacino di carenaggio, nonché le apparecchiature esterne alla pianura alluvionale cosi’ da aumentare la barriera contro le inondazioni.

In definitiva, finora, le valutazioni sui cambiamenti climatici del Pentagono hanno ispirato il decision-making militare ma non sempre quello politico, e complessivamente non al ritmo ed all’ampiezza attesi. Vedremo nel successivo articolo come la minaccia geopolitica indiretta potrebbe indurre a ripensamenti nella gestione strategica degli effetti del climate change sulla sicurezza nazionale entro breve tempo.

(1.continua)

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Fabio Vanorio è un dirigente in aspettativa del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Attualmente vive a New York. Si occupa di mercati finanziari (analista tecnico certificato presso la CMT Association di New York), finanza islamica (con Master presso l’Institute of Islamic Banking and Insurance di Londra), economia internazionale ed economia della sicurezza nazionale (climate change ed artificial intelligence). È anche contributor dell’Istituto Italiano di Studi Strategici “Niccolò Machiavelli”.

DISCLAIMER: Tutte le opinioni espresse sono integralmente dell’autore e non riflettono alcuna posizione ufficiale riconducibile né al Governo italiano, né al Ministero degli Affari Esteri e per la Cooperazione Internazionale.

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