Portare gli italiani in piazza sui temi di facile presa emotiva non basta per convincerli a votare. Meno che mai a vincere. Sembra essere questa la lezione delle elezioni regionali in Calabria, dove per portare le persone alle urne non è bastato il traino delle manifestazioni per la Palestina. Un po’ come era accaduto in giugno con il referendum contro il Jobs act, che aveva fallito il quorum, anche questa volta i temi internazionali si sono dimostrati insufficienti per convincere gli italiani a votare contro il governo. Domenica in Calabria è andata per certi versi peggio che nelle Marche la settimana precedente: non tanto per il divario assai più ampio, ma perché il presidente Roberto Occhiuto era andato al voto anticipato dopo essere stato colpito dall’ennesima inchiesta. La conferma della fiducia dei cittadini suona dunque di sconfessione della via giudiziaria al potere, che tante volte aveva funzionato in precedenza.
Al netto degli orrendi striscioni inneggianti all’eliminazione di Israele, al netto del teppismo che per qualche motivo accompagna sempre la sinistra in piazza, al netto di “Tutta la flottiglia minuto per minuto”, al netto delle cittadinanze onorarie a Francesca Albanese, le bandiere palestinesi non hanno portato i voti per salvare l’onore. Se ne è accorto nell’ultimo sprint Pasquale Tridico, reindirizzando la campagna elettorale verso l’assunzione di ulteriori migliaia di forestali e persino l’abolizione del bollo auto, temi di sicura presa nell’immaginario populista. E invece, non è servito neppure a una sconfitta onorevole, come hanno mostrato i quasi venti punti di distacco lanciati dai primi exit poll e proiezioni. Una tendenza talmente chiara da indurre Tridico a gettare subito la spugna.
Il pareggio non basta
La domanda politica che scaturisce da queste sconfitte riguarda la loro causa. Sono dovute a fattori contingenti, come la scelta dei candidati o i rapporti di forza, o a un’idea rifiutata dagli elettori, come il “campo largo”? Poiché l’autunno delle regionali non è finito, per un giudizio definitivo bisognerebbe aspettare i risultati di Campania, Puglia, Toscana e Veneto. A meno di clamorose sorprese, sembra lecito attendersi la riconferma delle tre amministrazioni di centrosinistra uscenti. Se così fosse, il punteggio finale nelle sei regioni maggiori sarebbe un pareggio 3-3, sul quale si può abbozzare un ragionamento. (La Valle d’Aosta, più piccola e comunque a statuto speciale, resta guidata da un partito autonomista che per raggiungere una maggioranza deve comunque cercare alleati, trovandoli probabilmente nel centrodestra.)
Come in ogni campionato, il pareggio ha un valore diverso per chi è in testa e per chi insegue. In primo luogo, chi è dietro deve fare più punti per raggiungere la capolista. Se questo non avviene, il campione d’inverno conferma la propria posizione e vince lo scudetto. Nella misura in cui le elezioni regionali si possono considerare un sondaggio politico su vasta scala, non strappare alcuna regione alla maggioranza è una conferma della solidità del govcrno Meloni, che non a caso è in carica senza troppi pensieri da 1.074 giorni ed entro fine mese supererà il Craxi I per diventare il terzo governo più longevo della storia repubblicana.
Se il campo largo non convince
Gli slogan ideologici, la supplenza del sindacato, il mantra dell’unità a sinistra, persino la categoria passepartout della pace e il richiamo all’antifascismo non sono equivalenti a una proposta politica concreta per i milioni di elettori spariti. Il frastuono su Gaza non riesce a coprire il silenzio assordante sull’Ucraina. La polemica sulla rinuncia al gas russo a basso prezzo non riesce a nascondere la perdita di competitività per l’alto costo dell’energia. La promessa di redditi-sussidi per tutti, magari a livello regionale, non è la soluzione per l’ormai cronica bassa crescita. L’attacco ai costi del ponte di Messina non seduce gli scettici del superbonus “graduidamente”.
L’idea di affrontare le enormi sfide della contemporaneità con qualche formuletta presa a prestito dal secolo scorso non basta più, non ultimo perché la comunicazione disintermediata ha smantellato le strutture alle quali si appoggiavano le grandi certezze ideali. In questo senso, il tema del giorno non è tanto la sostituzione di Elly Schlein, più curatore fallimentare che segretaria del PD, quanto la costruzione di una piattaforma in grado di fermare l’esodo di elettori verso Meloni o l’astensionismo. Non è un caso che a Roma riscuota consenso il sindaco Roberto Gualtieri, la cui amministrazione targata PD comunica soprattutto sull’avanzamento degli infiniti cantieri aperti grazie alla pioggia di risorse PNRR e Giubileo. Una politica del fare che, aldilà dei singoli disagi o insuccessi, esprime interesse per i problemi concreti.
Secondo il detto attribuito ad Abramo Lincoln, «si possono ingannare tutti una volta, si può ingannare uno tutte le volte, ma non si possono ingannare tutti tutte le volte.» Il termine ingannare è forse ingeneroso, ma l’incapacità di strappare vittorie per così dure “in trasferta” sembra indicare che la piattaforma politica del “campo largo” non intercetta le priorità o al sentimento degli italiani. Anche quando riempie le piazze, sul cui valore predittivo bisognerebbe smettere di fare affidamento.