Il direttore di questo autorevole magazine avrebbe ragione di obiettare che non c’è bisogno di un altro commento sulla vicenda delle nozze veneziane che ha riempito palinsesti televisivi, conversazioni social e pagine stampate, ma un piccolo episodio personale mi induce a condividere una riflessione sulla vicenda. Ho partecipato, silente, a un consesso di acculturate e garbate persone che discettava di libri e di viaggi tenendo a precisare – come un discarico di colpa, anzi di peccato mortale – che il volume oggetto dell’incontro non era una guida turistica, ancorché descrivesse aspetti interessanti di un certo luogo. Quest’atteggiamento è molto diffuso. Abbiamo adottato e spammato ad hoc anche un neologismo, “overturismo”, per significare che muoversi in giro per il mondo è un diritto, sì, che però bisogna limitare.
I criteri di selezione sono sostanzialmente due. Uno, sostenuto dalle amministrazioni delle mete destinatarie di tale movimento, è che arrivino e si trattengano soltanto le persone in grado di pagare: tasse di soggiorno, biglietti di ingresso, i prezzi di locali dove dormire e mangiare (a tale scopo si vieta che il viandante porti seco fagottino e bottiglia d’acqua e si sieda sul primo gradino per consumarli). In tal senso, mr. Bezos e neo-signora, che con la non originalissima scelta di giurarsi eterno amore nella splendida cornice veneziana avrebbero portato nelle casse della Serenissima circa un miliardo di euro, rientrano perfettamente nei parametri richiesti.
Questo metodo selettivo è visto però con orrore da chi coltiva una visione progressista e popolare secondo la quale non può essere il censo a discriminare chi può e non può fare una certa cosa. Obiezione questa, si capirà, eticamente apprezzabile ma praticamente inapplicabile, poiché nelle cure sanitarie così come nelle cerimonie nuziali, nella vita insomma, chi più spende più appende. Quando si prova a impedirlo di forza, abbiamo visto, le cose non vanno mai meglio, né per i ricchi né per i poveri.
Ecco allora che, come emerso nella riunione dalla quale facevo cenno, il politicamente corretto individua un altro criterio discriminatorio: che possano viaggiare solo le persone che hanno un’adeguata consapevolezza culturale dei luoghi dove si recano e che, quindi, garantiscano un consumo raffinato, sobrio. Un secondo razzismo che rispetto al primo mi pare altrettanto immorale ma decisamente più pericoloso. Mentre quello reddituale, come abbiamo detto, suscita un’immediata riprovazione, questo rischia di passare per legittimo o addirittura positivo, come fosse di un incentivo all’acculturazione, finalizzato ad avere un turismo e una vita “sostenibile”, come usa dire con altro termine molto di moda.
Però questa tesi non tiene conto che tanto i soldi quanto l’istruzione, nella stragrande maggioranza dei casi, si ereditano e non si meritano. Fanno eccezione pochi individui che, nati poveri e ignoranti, riescono a riscattarsi con merito e fortuna, accedendo alle vette della cultura o della ricchezza. Potremmo fare il caso di Leonardo Del Vecchio, cresciuto in orfanatrofio e, grazie a uno spirito imprenditoriale straordinario, finito a capo di uno degli imperi industriali maggiori, almeno per l’Italia, che è poi passato nelle mani di alcuni eredi che non hanno mancato l’occasione di intraprendere guerre fratricide in tribunale.
La riunione snobistica alla quale ho partecipato me ne ha ricordato una precedente, dove si erano scambiate considerazioni molto simili e che aveva per trascinante protagonista il celebre direttore di uno dei più importanti musei italiani, venerato come un un’icona da molti progressisti. Naturalmente questo personaggio applica anche sul lavoro le sue idee selettive, ma con molta capacità e una buona dose di furbizia, adottando accorte strategie di marketing e innovazioni di carattere pop che incentivano la fruizione della struttura museale affidatagli. Il che dimostra che talvolta è possibile trovare delle vie di mezzo se si evitano gli estremismi delle banalità.